La comunicazione fra scimpanzè all’origine del nostro linguaggio

di Ylenia Nicolini

  • Materie coinvolte: Biologia

“Il linguaggio contraddistingue l’uomo da tutti gli altri animali,
ma non sovrastimatelo, gli animali sanno comunicare fra loro”


Charles Darwin


 

La comunicazione fra scimpanzè all’origine del nostro linguaggio

È grazie al linguaggio, tratto distintivo della specie umana, che combinando parole differenti possiamo creare un infinito numero di messaggi. Una capacità, acquisita nel corso dell’evoluzione, che sembra distinguerci dal resto del regno animale. Ma è davvero così? Fino a che punto, la comunicazione degli altri animali, somiglia alla nostra?

Il primo a evidenziare le ovvie differenze fra il linguaggio umano e la comunicazione animale è stato Charles Darwin (1809-1882). Da allora, molteplici sono stati gli sforzi per svelare quali tratti, del nostro linguaggio, potrebbero essere condivisi con gli altri animali. Sforzi che hanno portato a un fiorire di studi comparativi fra l’uomo e le altre specie.

È Robert M. Seyfarth, ricercatore all’Università di Rockefeller (USA), ad avviare lo studio comparato dell’evoluzione del linguaggio. Nel 1980, infatti, il suo gruppo di ricerca dimostra che i cercopitechi grigio-verdi (Chlorocebus aethiops), primati caratteristici dell’Africa centro-orientale, utilizzano richiami d’allarme differenti per indicare predatori diversi; in base al tipo di segnale udito, queste scimmie reagiscono in modo diverso per mettersi in salvo, per esempio scappando sugli alberi in presenza di un leopardo, oppure guardando in alto in presenza di un’aquila (Figura 1).
Marie curie

Figura 1. Esemplari di cercopiteco grigio-verde, specie diffusa soprattutto in Sudan, Gibuti, Eritrea ed Etiopia (Foto: ©Francesco Ungaro/Pexels).

Per la prima volta, la comunicazione fra primati non umani sembra, per certi versi, somigliare al linguaggio umano. Da questo momento in poi, così, un vero e proprio fiorire di studi si propone di indagare le analogie fra il nostro sistema comunicativo e quello dei primati non umani e degli altri animali.

Nel ricostruire le origini evolutive del linguaggio, gli scienziati scoprono dunque che il cercopiteco di Campbell (Cercopithecus campbelli), il cebo dai cornetti (Cebus apella), i bonobo (Pan paniscus) e gli scimpanzé (Pan troglodytes) sono solo alcune tra le molte specie in grado di produrre segnali referenziali; questi richiami specifici, che danno informazioni sui predatori o sulla presenza di cibo, prevedono uno scambio reciproco tra conspecifici e, di conseguenza, sia il segnalatore sia il ricevente ne devono conoscere l’esatto significato.

Nell’arco di pochi decenni, ulteriori tasselli arricchiscono un quadro sempre più complesso: i macachi resi (Macaca mulatta) e gli scimpanzé saprebbero usare in modo intenzionale i propri richiami per raggiungere un certo scopo, gli orango (Pongo pygmaeus) riuscirebbero inventare e apprendere nuovi segnali, i gorilla (Gorilla gorilla), le scimmie ragno (Ateles geoffroyi) e i macachi giapponesi (Macaca fuscata) aspetterebbero il proprio turno prima di “parlare” (Figura 2).

gorilla
macaco

Figura 2. Nei gorilla (a sinistra) e nei macachi giapponesi (a destra) le interazioni vocali sono governate da regole precise e ben stabilite (Foto: © Amy Reed/unsplash e Nagara Oyodo/unsplash).

Anziché essere un tratto recente, comparso de novo negli esseri umani, quindi, il linguaggio sembra piuttosto essersi “stratificato” nel corso dell’evoluzione. Proprio come se le varie componenti che lo contraddistinguono fossero emerse gradualmente, plasmandosi su capacità pregresse dei nostri antenati. Esiste però una componente linguistica il cui percorso evolutivo rimane ancora piuttosto oscuro: la struttura sintattica del linguaggio.

La sintassi è una capacità unicamente umana?

In primis, con il termine sintassi (dal greco syntásso, “mettere insieme, disporre ordinatamente”) ci si riferisce all’abilità di combinare parole diverse in strutture o frasi più ampie di senso compiuto. Quando noi esseri umani impieghiamo espressioni come “mordi e fuggi” oppure “dare una mano”, stiamo utilizzando una sintassi combinatoria, in cui il significato complessivo è indipendente da quello degli elementi impiegati. Dicendo “mordi e fuggi”, infatti, intendiamo “di corsa”, “di fretta”, mentre “dare una mano” significa “prestare aiuto”, “assistere”. In altri casi, le nostre frasi acquistano un senso in base al significato delle parti che le compongono e al modo in cui queste sono disposte. Se diciamo, per esempio, “attento al lupo”, stiamo utilizzando una sintassi compositiva in cui il significato complessivo dipende dalla combinazione fra le parole usate.

Poiché senza sintassi, l’enorme potenzialità comunicativa del nostro linguaggio sarebbe assai limitata, svelandone le origini potremmo capire se questo tratto sia davvero solo nostro.

Per molti anni, gli scienziati sono stati convinti che la comunicazione animale fosse priva di sintassi; in mancanza di dati comparativi, infatti, si era giunti alla conclusione che fosse proprio la sintassi a distinguere il nostro linguaggio dai sistemi di comunicazione non umani. Tuttavia, di recente, questa ipotesi ha iniziato a vacillare.

I dati emersi hanno indicato infatti un numero sempre maggiore di specie capaci di combinare richiami dotati di significato in strutture più complesse. Per esempio, i cercopitechi nasobianco (Cercopithecus nictitans), per innescare uno spostamento del gruppo, combinano due diversi richiami che significano “c’è una minaccia!”. Dato che il richiamo complessivo ha un significato diverso da quello di ogni singola vocalizzazione, stiamo osservando un caso di sintassi combinatoria, ben diversa da quella compositiva, seppur rudimentale, impiegata dai cercopitechi di Campbell. Gli esemplari di questa specie, infatti, tendono ad aggiungere il suffisso “oo” al termine di alcune delle proprie vocalizzazioni per alterarne il significato, che tuttavia rimane simile a quello dei richiami di partenza.

Appare strano, ma dati di questo tipo sono stati raccolti anche in specie evolutivamente più distanti dall’uomo: il garrulo bicolore (Turdoides bicolor), la cincia giapponese (Parus minor) e i suricati (Suricata suricatta), per esempio, quando incontrano un predatore, combinano richiami di tipo diverso presenti nel proprio repertorio vocale (Figura 3).

suricati

Figura 3. Famiglia di suricati, manguste caratteristiche dell’Africa meridionale.

Risulta difficile interpretare informazioni di questo genere. Da un lato, questa capacità potrebbe risalire all’ultimo antenato comune fra scimmie e uomo (circa 45 milioni di anni fa); dall’altro, visti gli abbozzi di sintassi in alcune specie di uccelli e mammiferi non primati, potremmo ipotizzare uno scenario diverso, in cui questa facoltà non sarebbe altro che il frutto di una convergenza evolutiva. In questo senso, specie diverse e geneticamente lontane fra loro avrebbero sviluppato capacità simili in ambienti simili.

Per districarsi tra queste due potenziali ipotesi e ripercorrere l’evoluzione della sintassi sino al genere Homo, gli scienziati si sono chiesti se i nostri parenti più prossimi, le grandi scimmie antropomorfe (orango, gorilla, bonobo e scimpanzé), presentino nel proprio repertorio vocale una qualche forma rudimentale di sintassi.

I primi risultati non hanno tardato ad arrivare, illustrando che gli scimpanzé selvatici, partendo da un repertorio vocale di 15 richiami, arrivano a ottenere almeno 88 diversi tipi di combinazioni (Figura 4). A questo punto, lo step seguente non prevedeva altro che stabilire la tipologia di sintassi utilizzata, obiettivo che si sono prefissati Maël Leroux e colleghi, ricercatori dell’Università di Zurigo, durante le proprie ricerche in Uganda.

scimpanzé

Figura 4. Gli scimpanzè combinano richiami diversi ottenendo almeno 88 tipi di combinazioni differenti (Foto: © Jo Kassis/pexels).

Innanzitutto, gli scienziati si sono chiesti se gli scimpanzé, combinando diversi tipi di richiami, producano nuove “frasi” ricche di significato. Per rispondere a ciò sono stati usati degli esperimenti di playback, ovvero registrazioni delle vocalizzazioni dei soggetti, in seguito riproposte agli animali sia come vocalizzi singoli sia come richiami concatenati.

Di solito, quando si spaventano o sono colti di sorpresa, gli scimpanzè producono vocalizzazioni specifiche, gli alarm-huus (AH), per indicare una possibile minaccia; in altri contesti, invece, per esempio durante la caccia o eventuali incontri con i predatori o altre comunità, emettono i waa-bark (WB), usati soprattutto per reclutare i conspecifici. Può succedere, però, che gli scimpanzé impieghino questi due richiami secondo una precisa sequenza vocale: alarm-huu seguito da waa bark (AH-WB). E ciò accade, in genere, quando un singolo individuo incappa in una minaccia come un serpente.

Se questa combinazione servisse davvero a richiamare i compagni durante una situazione di rischio, ci troveremmo di fronte a un chiaro esempio di sintassi compositiva; il significato complessivo (“correte qui, c’è un pericolo!”) deriverebbe, infatti, da quello di ciascuna componente (“c’è una minaccia!” + “correte qui!”).

Leroux e colleghi, durante le osservazioni e gli esperimenti di playback, si sono subito accorti che i due richiami, quando emessi in tandem, innescavano una risposta diversa, molto più marcata, nei destinatari. Dopo aver udito le vocalizzazioni, infatti, gli scimpanzé correvano in gran numero e in fretta e furia nei pressi dell’emittente. Confluivano verso il conspecifico come se avessero estratto un messaggio preciso da quei due richiami combinati.

Risalire alle origini evolutive della nostra favella non è affar semplice. Ma di fatto, questi studi sugli scimpanzé e sulle altre specie ci pongono di fronte al primo indizio di una storia molto più antica di quanto credessimo: la storia del nostro linguaggio, i cui elementi base potrebbero essersi originati decisamente prima della comparsa di Homo sapiens ed esser già stati presenti, seppur in forme più semplici, nell’ultimo antenato comune di scimpanzé ed esseri umani.

 

Attività da proporre alla classe
[attività multidisciplinare con il corso di Lingua Inglese]

L’area di Broca è la regione della corteccia cerebrale umana coinvolta nell’elaborazione del linguaggio parlato e scritto. Aree omologhe sono state localizzate nei primati non umani, tuttavia resta da chiarire se queste  regioni abbiano avuto un ruolo chiave nel supportare l’evoluzione del linguaggio umano. I ricercatori Guillermo Gallardo e Cornelius Eichner dell’Istituto Max Planck per la Neurologia e le Scienze Cognitive di Leipzig, in Germania, hanno confrontato la morfologia dell’area di Broca negli scimpanzé e negli esseri umani raccogliendo dati istologici ed effettuando registrazioni corticali. Dividete la classe in 4 gruppi e leggete l’articolo pubblicato dagli scienziati; ogni gruppo avrà quindi il compito di preparare una presentazione pptx che illustri, anche mediante immagini, una parte dell’articolo letto (Introduction, Results, Discussion, Materials and methods).

 

Bibliografia


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