Obesità e sviluppo sostenibile

di Stefania Franco

  • Obiettivo Primario: 3 - Salute e benessere
  • Obiettivo Secondario: 10 - Ridurre le disuguaglianze
  • Obiettivo Secondario: 11 - Città e comunità sostenibili
  • Obiettivo Secondario: 12 - Produzione e consumo sostenibili
  • Materia: Biologia, Biochimica

L’obesità è sempre più diffusa nelle società economicamente avanzate: deve dunque essere considerata come un effetto collaterale del benessere o come la conseguenza di modelli di sviluppo iniqui e insostenibili?


 

Le due facce della malnutrizione

Nel libro Fuga dalla fame il premio Nobel per l’economia David Foegel descrive gli ultimi tre secoli di storia dell’umanità come una serie di progressi che ha permesso a un numero sempre maggiore di persone di liberarsi dallo spettro della carenza alimentare. A partire dalla seconda metà del Novecento, la disponibilità di cibo è aumentata in tutto il mondo, passando da una media pro capite di 2200 Cal/die alle attuali 2800 Cal/die.
Tuttavia, esiste un’enorme sproporzione nella distribuzione delle risorse. Il 9% della popolazione mondiale vive ancora in condizioni di insicurezza alimentare e soffre di malnutrizione, intesa come denutrizione. L’altra faccia della malnutrizione è l’iperalimentazione, che sta assumendo dimensioni ancor più preoccupanti se si considera che il 39% della popolazione mondiale è in sovrappeso, di cui il 13% è obeso.


 

Geografia dell’obesità

In un rapporto del 2011 l’OMS ha coniato il termine globesity per riferirsi al fatto che l’epidemia di obesità ha assunto proporzioni globali. In termini statistici si parla di epidemia quando una patologia colpisce più del 15% della popolazione. Negli Stati Uniti la percentuale di adulti obesi è del 37%, in Canada e Australia supera il 30% e nell’Unione Europea si aggira tra il 20 e il 25%. Prediamo un Paese emergente come il Brasile: se all’inizio degli anni Duemila la percentuale di cittadini denutriti era del 10%, nel 2018 era inferiore al 2,5%. Un ottimo risultato, se non fosse che anche la percentuale di persone obese è salita, passando dal 14% nel 2001 al 22% nel 2016. L’obesità deve dunque essere associata alla ricchezza così come la fame lo è alla povertà? 

Una questione di contabilità

Un’indicazione su una delle cause dell’obesità è già contenuta nell’etimologia del termine, che deriva dal latino obesus, parola formata dalla preposizione ob, a causa di, unita al participio passato del verbo edere, mangiare. Letteralmente, “a causa di ciò che è stato mangiato”. In latino l’aggettivo obesus non significa solo pingue: in altre accezioni può significare anche ottuso, stupido, grossolano, a riprova del fatto che lo stigma che accompagna questa condizione ha radici antiche. Ma l’etimologia non spiega che un aspetto dell’obesità. 
Il sovrappeso e l’obesità sono il risultato di un “prolungato bilancio energetico positivo”, cioè quando le calorie in entrata superano i consumi energetici per un certo periodo di tempo. Questa contabilità è tenuta dal metabolismo, l’insieme dei processi biochimici che permettono a un organismo di mantenersi in vita, di svilupparsi, rigenerarsi e riprodursi. Il metabolismo trasforma la materia (come il cibo o le riserve) in energia e l’energia (sotto forma di carboidrati, proteine, lipidi, ecc.) in attività o materia (ossa, muscoli, organi e, ancora, riserve).

Il metabolismo basale è la quantità di energia necessaria all’organismo per mantenere le proprie funzioni vitali in condizioni di riposo: per un maschio adulto si aggira intorno a 1800 Cal/die. Il metabolismo basale incide per il 70% dei consumi, a cui bisogna aggiungere l’energia utilizzata per le funzioni di regolazione della temperatura corporea (termogenesi) e per l’attività fisica. Mentre il metabolismo basale e la termogenesi dipendono da fattori come il sesso, l’età e la costituzione genetica, l’attività fisica rappresenta la variabile della contabilità metabolica su cui c’è più margine di azione.

 

La nostra fame ancestrale

Quello che per molti è un cruccio, il grasso, è il frutto di un meccanismo evolutivo che permette di accumulare energia per far fronte alla scarsità di cibo. Dal punto di vista fisiologico occorre distinguere tra la fame e l’appetito: la fame è una sensazione che insorge per segnalare all’organismo un calo energetico quando il livello di carboidrati nel sangue si abbassa. L’appetito, invece, è un desiderio che ci spinge verso determinati alimenti. Il nostro appetito si è evoluto per indirizzarci verso gli alimenti più ricchi di carboidrati e lipidi perché sono quelli più calorici. Lo stimolo della fame non si interrompe appena assumiamo cibo, ma un po’ dopo: in pratica, è la nostra stessa costituzione biologica a spingerci a mangiare più del necessario. Per la maggior parte della nostra storia evolutiva, infatti, la disponibilità di cibo era incerta e la spesa energetica per procurarselo era alta. Il fabbisogno energetico di un giovane maschio cacciatore raccoglitore superava le 3000 Cal/die e la situazione è rimasta a lungo pressoché invariata per la maggior parte della popolazione attiva, impiegata in lavori pesanti. Oggi soltanto il 5% della popolazione italiana è impiegata nell’agricoltura, ma all’inizio del Novecento era l’80% e il settore ancora non conosceva l’attuale livello di meccanizzazione, perciò richiedeva molta forza lavoro.
I meccanismi della fame e dell’appetito sono ancora quelli dei nostri antenati, ma nei paesi industrializzati la disponibilità di cibo non è più un problema e i consumi energetici sono crollati. Lo sviluppo tecnologico non ha liberato l’umanità solo dalla fame, ma anche dalla fatica, sicché oggi il fabbisogno energetico di un maschio adulto sedentario non dovrebbe superare le 2500 Cal/die.
La causa dell’obesità deve dunque essere rintracciata in uno squilibrio tra la nostra costituzione biologica ancestrale e gli stili di vita delle attuali società industriali.

 

Ambienti alimentari tossici e obesogeni

È stato rilevato che l’aumento dell’obesità segue quasi ovunque il fenomeno dell’urbanizzazione. Ma perché gli abitanti delle città tendono a ingrassare?
Per rispondere a questa domanda, lo psicologo americano Kelly D. Brownell ha introdotto il concetto di ambiente alimentare tossico basato sull’idea che le abitudini alimentari sono influenzate non solo dalla presenza di cibo e dalla sua qualità, ma anche dalla sua distribuzione nello spazio. La massiccia presenza di catene di fast food nelle città così come la disposizione del cibo nelle mense e nei supermercati, sono fattori che indirizzano le scelte dei consumatori. 
Altri studiosi hanno parlato di ambienti obesogeni analizzando la struttura delle città e in particolare il cosiddetto sprawl urbano, collegato alla crescita rapida e disordinata delle città che ha fatto sorgere ampie zone suburbane lontane dal centro e da tutti i servizi. Per chi abita in un’area suburbana degli Stati Uniti è molto più semplice procurarsi un pasto a base di hamburger e patatine senza neanche dover scendere dall’auto, piuttosto che acquistare alimenti freschi ancora da cucinare. Le persone che abitano nelle aree suburbane, inoltre, sono praticamente obbligate a usare mezzi di trasporto (perlopiù privati) per andare al lavoro, a scuola o fare la spesa, perciò si muovono poco. Andrew Rundle, epidemiologo alla Columbia University, ha individuato una relazione tra il sovrappeso e l’indice di camminabilità (walkability index) di uno spazio: fattori come grandi distanze da percorrere e traffico intenso determinano una bassa camminabilità. Inoltre, gli spazi poco frequentati da pedoni sono tendenzialmente percepiti come meno sicuri e dunque meno persone sono disposte a percorrerli a piedi.

 

La magrezza come segno di ricchezza

Nei Paesi economicamente sviluppati l’obesità colpisce soprattutto gli strati più poveri della popolazione: per esempio, negli Stati Uniti la percentuale di persone obese cresce tra gli ispanici e gli afroamericani, mentre in Italia è più alta al Sud e nelle isole e diminuisce nelle regioni del Nord.
Se nelle società industrializzate le persone magre sono tendenzialmente quelle più ricche è perché per mangiare bene e fare attività fisica occorre disporre di risorse in termini non solo economici, ma anche di tempo. Poiché l’attività fisica è ormai completamente scissa dal lavoro, occorre ritagliarle momenti dedicati, sottraendoli al tempo libero. Occorrono anche spazi progettati per questo scopo, come aree verdi, palestre, piscine. Chiunque pratichi uno sport, inoltre, sa bene che è necessario procurarsi un equipaggiamento specifico e pagare per fruire di determinati servizi. Le ore passate sul divano davanti alla televisione mangiando gelato, spesso sono la scelta di chi non si può permettere di fare altrimenti.
Anche seguire un regime alimentare equilibrato richiede tempo e denaro, per procurarsi il cibo e per cucinarlo, mentre l’industria alimentare offre una vasta gamma di cibi pronti, a basso costo e alta palatabilità (oltre che elevato contenuto carboidrati e lipidi).

 

Obesità e sostenibilità

Spesso l’obesità è considerata come la manifestazione visibile di vizi morali come la gola, l’intemperanza e la pigrizia: questo stigma attribuisce tutte le responsabilità agli individui, trascurando il peso niente affatto marginale delle condizioni ambientali, sociali ed economiche. Inoltre, gli alimenti ipercalorici, ricchi di grassi di origine animale e di zuccheri raffinati non fanno male solo a noi, ma anche all’ambiente. Oltre all’impatto del settore agricolo, non dobbiamo trascurare quello dell’industria alimentare, con il suo indotto nei consumi di energia, nei trasporti e nell’utilizzo di packaging non riciclabile. 
A ben vedere, dunque, l’obesità dovrebbe essere considerata come la manifestazione epidemica di problemi globali poiché dipende da modelli di produzione e consumo insostenibili per l’ambiente oltre che per noi esseri umani ed è strettamente collegata alle disuguaglianze economiche e sociali.

 

Riferimenti bibliografici


  • Ottavio Bossello, Massimo Cuzzolaro, Obesità e sovrappeso, Il Mulino, Bologna, 2006

  • Jonathan Silverton, A cena con Darwin, Bollati Boringhieri, Torino, 2018

  • Paolo Vineis, «Pechè siamo obesi? Junk food e sprawl suburbano» in Lost in translation, Codice Edizioni, Torino, 2011


 

Documentario

Attività per la classe

Autovalutazione dello stile di vita
compilate per una settimana un diario in cui inserirete tutti gli alimenti assunti durante i pasti e fuori pasto e le diverse attività svolte (studiare, camminare, praticare uno sport, svolgere lavori domestici). Alla fine della settimana, analizzate la composizione della vostra dieta in percentuale suddividendo gli alimenti nelle tre principali categorie di macronutrienti (carboidrati, proteine, lipidi) e illustrate il risultato in un grafico a torta.
Calcolate quante ore sono state dedicate all’attività fisica. Come definireste il vostro stile di vita?
  • sedentario: nessuna attività fisica;
  • parzialmente attivo: attività fisica che non supera due ore la settimana;
  • attivo: 30/50 minuti di attività fisica per 3/5 giorni la settimana.
Infine, provate ad analizzare quali fattori ambientali e sociali condizionano le vostre abitudini alimentari e stili di vita prendendo in considerazione fattori come gli spostamenti, il tempo dedicato ai pasti e all’attività fisica, la presenza di spazi dove poter praticare attività fisica, etc.