Vera Cooper Rubin e la scoperta della materia oscura

di Edwige Pezzulli

  • Materie coinvolte: Fisica

«I miei successi scientifici sono arrivati perché sapevo cosa volevo fare e ho trovato colleghi  disponibili e gentili nella comunità astronomica. Non mi sono mai fatta scoraggiare dagli altri, nonostante gli altri fossero spesso scoraggianti. Al contrario, ho lavorato su alcuni problemi astronomici che all’epoca erano di nicchia, in modo da poterlo fare al mio ritmo, senza essere pressata. Non ve lo offro come esempio, è solo per dimostrarvi che possono esistere approcci diversi alla scienza. Devono esistere. Spero che alcuni di voi siano in grado di trovare la propria strada attraverso la complessa sociologia della scienza. La scienza è competitiva, aggressiva, esigente. Ma è anche fantasiosa, stimolante, esaltante. E come ho fatto io, potete farcela anche voi.»

 
Molte avventure iniziano per caso. Ed è il caso ad aver fatto alzare gli occhi al cielo a Vera Cooper, quando a 11 anni si trasferì da Philadelphia a Washington DC. Nella nuova casa infatti si trovò a dover dividere la camera da letto con la sorella più grande, Ruth, con la quale non andava molto d’accordo. Le due tirarono allora una linea di demarcazione per separare la stanza e Ruth scelse di occuparne il lato più bello. A Vera toccò di dormire sotto la finestra. Da lì, ogni notte, cominciò a osservare il cielo, rubando al sonno ore preziose che iniziarono a riempirsi presto di sogni a occhi aperti.

Ogni notte, la passione di Vera Cooper per le stelle aumentava, guadagnando quasi le fattezze di un’ossessione. Convinta che la comprensione universale potesse essere raggiunta attraverso la lettura e lo studio, a soli 14 anni si unì a un club di astrofili e a 15 decise di costruire da sola un telescopio.

Mentre il suo amore per l'astronomia cresceva, le ore di laboratorio di fisica cominciavano a diventare un incubo: il suo insegnante era incapace di gestire la presenza delle sole due ragazze nella classe e si limitava perciò a ignorarle. Il primo e unico tentativo di contatto tra i due fu all’arrivo della lettera di ammissione al college. Vera volle condividere la notizia, e la risposta del professore la fece pentire immediatamente: «Bene, sono contento per te. L'unico consiglio che ti do è di stare lontana dalla scienza». Consiglio che Vera, per fortuna, sceglierà di non seguire.

 

Verso un futuro da scienziata

A settembre del 1945 il Vassar College, nello stato di New York, spalancò le sue porte alla giovane Vera, che aveva scelto di studiare astronomia. Tra una pausa e un’altra, nell’estate del 1947, incontrò un studente di fisica alla Cornell University, Bob Rubin. La scintilla che scoccò tra i due fu così netta che Vera e Bob convolarono a nozze nel giro di pochi mesi. Come da consuetudine dell’epoca, Vera Cooper rinunciò al suo cognome e nello stesso anno si laureò in astronomia come Vera Rubin.

Tre anni dopo, nel 1951, ottenne la laurea magistrale con una tesi dai risultati inaspettati, che sembrano suggerire che l’Universo fosse in rotazione. Il relatore con cui aveva lavorato per la tesi trovò il lavoro di Vera particolarmente meritevole, tanto da suggerire di presentarlo al meeting della società americana di astronomia il mese successivo. Ma Vera aveva appena partorito il suo primo figlio, David, e non era nemmeno membro della società di astronomia, perciò - la indirizzò il professore - sarebbe potuto andare lui a raccontare ai colleghi i risultati. Anzi, per semplicità sarebbe stato meglio che il lavoro fosse comparso direttamente a nome del professore.

Una storia dal finale abbastanza prevedibile se davanti al professore non ci fosse stata una ragazza particolarmente determinata e tenace. Esattamente un mese dopo aver dato alla luce suo figlio, il 28 dicembre 1951, Vera si trovò ad affrontare la sua prima conferenza. In un contesto nuovo, senza conoscere nessuno e senza sapere esattamente cosa aspettarsi, la giovane laureata raccontò a 130 ricercatori attempati le conclusioni controverse della sua tesi di laurea. Alcuni dei presenti in sala interpretarono quel suo seminario come fosse un affronto -  una giovane donna sconosciuta che presentava con arroganza teorie strampalate, senza nemmeno troppi dati a sostegno della sua tesi. In effetti, anni dopo l’ipotesi di Vera fu confutata, come è giusto che accada nella scienza, ma Vera Rubin non si lasciò scoraggiare. Nemmeno dall’articolo di giornale uscito il giorno dopo la conferenza sul quotidiano locale. «Giovane madre trova il centro della creazione.» Una giovane madre qualunque, senza né nome né cognome.

Dopo una breve parentesi casalinga, nell’aprile del 1952 Vera riprese i suoi studi alla Georgetown University, grazie anche alla collaborazione attiva e sistematica dell’intera famiglia. L’osservatorio si trovava infatti a 16 chilometri da casa e Vera Rubin non aveva una patente. Bob terminava allora di lavorare all’Università alle 17, passava a prendere la suocera in macchina e i due raggiungevano insieme Vera, che nel frattempo aveva mangiato, fatto da mangiare al bambino e preparato la cena al sacco per il marito. Madre e figlia si davano allora il cambio per badare al piccolo e via, in macchina verso l’osservatorio. Una volta arrivati Vera scendeva dall’automobile, salutava Bob, correva a lezione e lui la aspettava pazientemente per due ore, prima di rientrare a casa insieme.

Nel dicembre 1953 tutti gli sforzi della famiglia Cooper-Rubin vennero premiati e Vera ottenne il dottorato di ricerca, con un lavoro sulla distribuzione della galassie nell’Universo e sotto la supervisione di uno dei fisici più importanti dell’epoca, George Gamow. Nella sua ricerca aveva scoperto che le galassie non sono distribuite uniformemente nello spazio ma alcune si addensano come a formare dei gruppi, quelli che oggi chiamiamo “ammassi di galassie”.

 

Farsi luce nell’oscurità

La passione che faceva sognare Vera Cooper Rubin durante l’infanzia, quando si trovava a letto a guardare le stelle dalla finestra della sua camera, l’accompagnò durante tutta la sua carriera. Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 collaborò con Kent Ford, un astronomo che aveva costruito uno strumento in grado di osservare la luce proveniente da piccole zone di una galassia. Le osservazioni che i due realizzarono insieme si rivelarono straordinarie: grazie alla sensibilità dello strumento fu infatti possibile misurare come si muovono le stelle nella galassia di Andromeda, la nostra galassia gemella, scoprendo così che il loro movimento è decisamente più rapido di quanto ci si aspettasse. La spiegazione più plausibile per questa anomalia era che nella galassia ci fosse più materia di quanto si potesse vedere.

Dopo che lo stesso risultato fu trovato in altre 200 strutture, Vera Rubin si convinse di ciò che aveva appena osservato: le stelle si muovono come se nelle galassie sia presente più materia di quella visibile. Materia invisibile, oscura, già teorizzata negli anni ‘30 dal cosmologo Fritz Zwicky.

Oggi sappiamo che solo il 15% della materia nell’Universo è quella che conosciamo, la materia che costituisce il Sole, la Terra, noi, l’aria che respiriamo - materia ordinaria. Il resto è materia oscura e, a parte averle dato un nome, non sappiamo che cosa sia: supponiamo si tratti di particelle con una massa, perché ne vediamo gli effetti gravitazionali, eppure non devono emettere, riflettere nè assorbire la luce, poichè non ne osserviamo traccia.

Nonostante sia invisibile però, la materia oscura è estremamente importante anche per la nascita delle galassie stesse. Ogni galassia infatti è una struttura più complessa, costituita prima di tutto da un grande alone di materia oscura. La gravità dell’alone stesso attrae il gas intergalattico sparso nell’Universo, lo fa precipitare al centro e, se le condizioni fisiche sono adatte, permettere alle stelle di accendersi dando alle galassie quelle sembianze luminose con cui le conosciamo così bene.

Per aver fornito una prova robusta dell’esistenza della materia oscura Vera Rubin ricevette molti premi: nel 1993 la Medaglia Nazionale della Scienza, la più importante onorificenza statunitense in campo scientifico e nel 1996 la Royal Astronomical Society le conferirà la medaglia d’oro.

La maternità di una scoperta è però una questione molto delicata e non merita di essere ridotta a narrazioni minimali che rischiano di cancellarne la natura complessa. Spesso nella storia siamo infatti portati a chiederci “chi” abbia scoperto qualcosa - d’altronde è attraverso il cognome di singoli scienziati che ci vengono presentate il più delle volte leggi ed equazioni che riguardano il mondo naturale. Le scoperte scientifiche sono invece figlie di un processo comunitario, collettivo, portato avanti nel tempo da mani e teste differenti. Da una parte è cruciale apprezzare il contributo di coloro che hanno esplorato e ampliato le nostre conoscenze, dando soprattutto risonanza ai nomi spesso trascurati dalla storia. Dall'altra, però, è essenziale evitare quelle semplificazioni che rischiano di appiattire le vicende umane ad avventure epiche. Nella storia che riguarda la scoperta della materia oscura, in particolare, dovremmo prende in prestito le parole del filosofo William Vanderburgh: «dato il tempo che ci è voluto alla comunità astronomica per fare i conti con l’evidenza della materia oscura, è ragionevole dire che non esiste un singola persona che ha scoperto la materia oscura».

 

Per soli uomini

Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, l’uso di molti telescopi per osservare il cielo era precluso alle donne. L’importante telescopio sul Monte Palomar, per esempio, era utilizzato da soli uomini per un motivo molto semplice: mancavano le infrastrutture nell’Osservatorio. Mancava, nello specifico, il bagno per le donne.

Dopo aver chiesto del tempo a sua disposizione per utilizzare il telescopio ed essere stata selezionata, nel 1965 Vera Rubin diventò la prima astronoma ad accedere all’Osservatorio di Monte Palomar e a utilizzarne il telescopio di 5 metri di apertura. Quando arrivò davanti al famoso bagno, sul quale campeggiava la sagoma di un omino, prese un pezzo di carta igienica, che tagliò con le forbici a forma di trapezio e attaccò a mo’ di gonna sulla segnaletica. «Ecco fatto. Ora il bagno per le donne c’è.»

Questo aneddoto racconta bene l’inclinazione di Vera Cooper Rubin rispetto alle molte ingiustizie che le donne erano costrette ad affrontare per intraprendere una carriera scientifica. Cervelli che rappresentano il 50% di quelli umani, e che sono stati tenuti storicamente fuori dalle mura accademiche, arrecando anche un danno alle occasioni per l’avanzamento del sapere scientifico stesso.

Nella vita dell’astronoma, carriera e lotta contro le discriminazioni hanno viaggiato in parallelo e non solo con proclami e dichiarazioni ma anche e soprattutto attraverso azioni concrete: denunciò la presenza esclusiva di uomini nei dipartimenti e nelle commissioni, rifiutò di partecipare a conferenze in cui erano invitati solo relatori maschili, sostenne attivamente studentesse e giovani astronome. Senza mezzi termini, a 72 anni scrisse all'Accademia delle Scienze Americana: «Wow! Avete superato voi stessi. L'anno scorso mi ero lamentata del meeting perché era stata invitata una sola relatrice. Quest'anno avete dimostrato che si può peggiorare: 21 relatori, tutti uomini. Quantomeno il prossimo anno dovrebbe essere difficile fare peggio di così.»

Scienza e diritti, dimensione personale e carriera professionale sono categorie che nella vita di Vera Cooper Rubin si sono mescolate spesso, costruendo un unicum senza soluzione di continuità. I suoi quattro figli hanno respirato aria di scienza fin dall’infanzia e sono diventati un’astronoma, un matematico e due geofisici. Forse anche per questa inseparabile sovrapposizione tra pubblico e privato, tra vita professionale e vita familiare, Vera continuerà a osservare il cielo fino alla fine. Fino alla sua morte, avvenuta la sera di natale del 2016.

Dagli anni Settanta in poi, per molto tempo, circolarono voci sulla possibile candidatura di Vera Cooper Rubin al Premio Nobel. Tante persone la consideravano quasi scontata. Il Nobel però non le fu mai conferito e poiché non può essere assegnato postumo, non lo riceverà mai.

In una delle tante interviste in cui le chiesero che ne pensava del mancato Nobel, Vera spostò l’attenzione dalle questioni umane al cielo: «in fin dei conti non siamo certi che la materia oscura esista, magari invece sono da cambiare le equazioni della gravità. Mi dispiace saperne così poco. A dire la verità, mi dispiace che tutti noi ne sappiamo così poco. Ma forse è proprio questo il divertimento. Non è così?»

 

Scheda docente

CONSEGNA AGLI STUDENTI

L’attività consiste in un dibattito sulle forme di discriminazione sistemica che le donne di scienza si trovano a dover affrontare. Per svelarne le diverse tracce, è utile descrivere una delle situazioni tipo che una scienziata si può trovare ad affrontare durante la sua carriera lavorativa (in una conferenza, in un laboratorio, durante una lezione) e cambiare successivamente il genere di tutte le persone coinvolte nella storia appena descritta.

L’attività ha lo scopo di stimolare gli studenti al confronto e ad argomentare un punto di vista, individuandone anche le possibili controargomentazioni.

FASI E TEMPI DI REALIZZAZIONE

Fase 1 - La consegna può essere introdotta dall’insegnante che facilita la formazione dei gruppi (20 minuti) e sceglie un portavoce per ciascun gruppo.

Fase 2 - All’interno di ciascun gruppo, gli studenti discutono tra loro e argomentano il punto di vista assegnato (circa 20 minuti).

Fase 3 (10 minuti) – I portavoce espongono i risultati della discussione.

Fase 4 (5 minuti) – L’insegnante discute i risultati ottenuti.

Al termine del dibattito gli studenti possono esprimere individualmente la propria opinione rispetto alle seguenti domande.

  • Concordi con l’opinione espressa dal tuo gruppo?

  • L’attività ha in qualche modo contribuito a modificare le tue precedenti opinioni sull’argomento?

  • A quale conclusione sei giunta/o?


 

Bibliografia


  • Vera Rubin: A Life, Jacqueline Mitton and Simon Mitton, Harvard University Press, 2021


 

Crediti