Quale autonomia regionale differenziata?

Alla ricerca di un difficile equilibrio tra unità, autonomia e uguaglianza

di Francesco Pallante, 13 aprile 2023

Esistono due modi di intendere l’autonomia regionale differenziata. Il primo considera le regioni un fine in sé e mira ad attribuire loro quante più competenze possibili, a esclusivo beneficio dei cittadini della regione, con il risultato di indebolire l’unità della Repubblica e aumentare la disuguaglianza. Il secondo considera le regioni un mezzo e mira ad attribuire loro solo le singole competenze che potrebbero migliorare le capacità d’azione della Repubblica nella lotta alla disuguaglianza. Il primo modo è quello oggi in auge, ma solo il secondo è compatibile con la Costituzione.

L’autore: Francesco Pallante è professore ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Torino; è coautore di Lineamenti di Diritto costituzionale, Le Monnier, Firenze 2019 (con Gustavo Zagrebelsky e Valeria Marcenò).

 

La Repubblica in equilibrio tra unità e autonomia, con l’obiettivo dell’uguaglianza

Chiamati a scegliere tra federalismo e centralizzazione, i costituenti optarono nel 1948 per una soluzione inedita, lo Stato regionale, da costruirsi a partire da due principi fondamentali tra loro opposti, ma non inconciliabili: l’unità della Repubblica e l’autonomia degli enti territoriali (art. 5 Cost.: «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali […]»).

A fronte del problema di fondo, consistente nell’enorme disuguaglianza che segnava in negativo il Paese – cioè il fatto che non tutti fossero, in concreto, nella condizione di poter pienamente sviluppare la propria personalità e partecipare attivamente alla vita collettiva, come richiesto dall’art. 3, co. 2, Cost. –, la soluzione prospettata fu di non affidarsi alla sola azione dello Stato, ma di prevedere una pluralità di interventi capaci di individuare e rimuovere capillarmente, a tutti i livelli territoriali, gli ostacoli che impedivano di dare ai cittadini, ovunque risiedessero, uguali opportunità di vita.

In questa visione, dunque, le autonomie non erano fini in sé, rivolte alla realizzazione – le une contro le altre e tutte insieme contro lo Stato – dei propri interessi peculiari, ma mezzi impegnati, in collaborazione reciproca e alla pari con lo Stato, nella realizzazione del dettato costituzionale. Di qui l’idea della Repubblica come concetto di sintesi, composta, oltre che dai cittadini, da tutti gli enti territoriali in posizione di parità: dai comuni allo Stato, passando per le province, le città metropolitane e le regioni.

 

La riforma del Titolo V del 2001 e l’autonomia regionale differenziata

Le linee fondamentali di questa concezione dei rapporti tra Stato ed enti territoriali – unità, autonomia, lotta alla disuguaglianza – sono parte del nucleo immodificabile della Costituzione. Sono, dunque, rimaste immutate quando nel 2001 fu riscritto a fondo il Titolo V della Parte II (artt. 114-133), con l’obiettivo di potenziare il ruolo delle autonomie territoriali; rimangono ugualmente immutate oggi, con riferimento alla volontà di alcune regioni di far uso della facoltà – prevista dall’art. 116, co. 3, Cost. modificato nel 2001 – di ulteriormente potenziare il proprio ruolo, ottenendo nuove e ulteriori competenze normative e gestionali: ciò che nel dibattito pubblico va sotto il nome di autonomia regionale differenziata.

Che cos’è, dunque, l’autonomia regionale differenziata? È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie (non a quelle speciali, per le quali vale una disciplina costituzionale a parte) di aumentare le proprie competenze, differenziandosi così rispetto alle altre, in ambiti oggi affidati alla competenza dello Stato, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, acque interne e costiere, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea.

 

Questioni procedurali

Dal punto di vista procedurale, il nuovo art. 116, co. 3, Cost. dispone che la regione interessata raggiunga un’intesa con lo Stato sull’incremento delle proprie competenze e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta.

C’è però un problema: posto che la trattativa tra regione e Stato in vista del raggiungimento dell’intesa è condotta dalla giunta regionale e dal governo (i due organi esecutivi), il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa. Al contrario, per i fautori della prima ipotesi è assurdo ipotizzare che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non possa esercitare poteri decisionali su una questione che investe pienamente proprio l’interesse generale (vale a dire, quale debba essere il ruolo residuo dello Stato).

Il governo in carica si propone di superare questa contrapposizione grazie all’approvazione di un disegno di legge (c.d. ddl Calderoli), in base al quale il Parlamento potrà sì esprimersi in senso critico sull’intesa, ma solo con un atto d’indirizzo rivolto al governo e alla regione, affinché riaprano le trattative; dopodiché, una volta terminata la nuova fase della trattativa, esso potrà solo approvare o respingere la legge che recepisce l’intesa, senza poterla modificare.

Il ddl Calderoli prevede, inoltre, che non possano essere approvate leggi di recepimento delle intese prima che siano definiti dal governo i livelli essenziali delle prestazioni (Lep), inerenti ai diritti civili e sociali, che – come previsto dall’art. 117, co. 2, lett. m, Cost. – devono essere garantiti in modo uguale su tutto il territorio nazionale. In tal modo, la differenziazione tra le regioni potrà dispiegarsi solo “al di sopra” di un livello di prestazioni fissato in modo uguale per tutte.

È sufficiente una minima consapevolezza del funzionamento delle fonti giuridiche per cogliere la fragilità dell’intento governativo. Poiché, infatti, l’intesa Stato-regione sarà approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può vincolarne la procedura di adozione: fonti del diritto dotate di pari forza – come, appunto, la legge di recepimento dell’intesa e la legge Calderoli – non possono prevalere l’una sull’altra. Più tecnicamente: la legge Calderoli, di portata generale perché riferita a tutte le intese, sarà derogata dalla legge di recepimento della singola intesa particolare. Solo una legge costituzionale, in quanto dotata di forza superiore, potrebbe vincolare tutte le successive leggi di approvazione delle intese, ma la procedura di approvazione di una legge costituzionale è molto onerosa. Rimanendo così le cose, la conseguenza sarà non solo che lo Stato e le regioni potranno comunque procedere sulla strada del regionalismo differenziato prima che sia approvato il ddl Calderoli, ma anche che, qualora il ddl Calderoli divenisse legge, potranno comunque raggiungere intese che non ne rispettino le previsioni (e dunque, per esempio, potranno non aspettare l’approvazione dei Lep).

Si aggiunga che, una volta approvata, la legge di approvazione dell’intesa non sarà revocabile né modificabile senza il consenso della regione interessata (serve una nuova intesa) e non sarà sottoponibile a referendum abrogativo (in quanto approvata secondo una procedura atipica). Dunque, l’aver deciso di dare attuazione all’art. 116, co. 3, Cost. con una legge ordinaria, anziché costituzionale, rischia di rivelarsi un errore gravido di conseguenze irrevocabili.

 

I livelli essenziali delle prestazioni

Se Anche il procedimento di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) dettato dalla legge di bilancio 2023, non risulta rispettoso del quadro costituzionale.

La procedura prevede i seguenti passaggi:

  1. la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa incaricati di stabilire il costo delle diverse prestazioni pubbliche) formula una prima ipotesi di Lep;

  2. la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i Lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico;

  3. la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere: in entrambi i casi, senza effetti vincolanti;

  4. il Presidente del Consiglio approva i Lep con proprio decreto (dPcm). Qualora l’intero procedimento non dovesse concludersi nel termine di un anno, il governo nomina un Commissario incaricato di condurre a termine le operazioni (salvo l’approvazione dei dPcm, che rimane prerogativa del Presidente del Consiglio).


Si tratta di una procedura incostituzionale per, almeno, tre motivi. Anzitutto, la Costituzione attribuisce il compito di definire i Lep al Parlamento, che invece sarà chiamato a esprimere un semplice parere. Inoltre, la Costituzione prevede che i Lep siano definiti in tutte le materie che coinvolgono diritti, mentre il governo sceglierà in quali materie definirli e in quali no. Infine, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che saranno le esigenze di bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario: lo ha sancito la Corte costituzionale nella sentenza n. 275/2016, in base alla quale prima devono essere individuati i diritti e dopo, in base ai diritti, si predispone il bilancio, in modo che nessun diritto rimanga privo di adeguati finanziamenti.

Del tutto incongrua appare, inoltre, la possibilità di avvalersi dei poteri di un Commissario straordinario in caso di mancato rispetto dei tempi: com’è facile comprendere, definire il contenuto essenziale dei diritti dei cittadini è cosa ben diversa dal presiedere alle operazioni di realizzazione di un’opera infrastrutturale e non c’è dubbio che un’eventuale decisione di procedere in tal senso configurerebbe una violazione della Costituzione.

In ogni caso, sarebbe ingenuo fare eccessivo affidamento sulla capacità dei Lep di tutelare l’uguaglianza, foss’anche solo a un livello minimo. Là dove, come in sanità, i Lep già esistono (sono i Lea: livelli essenziali di assistenza), le diseguaglianze nell’ammontare del finanziamento e nella qualità delle prestazioni erogate nelle diverse regioni sono comunque presenti e ben note: basti dire che tra la Provincia di Bolzano e la regione Calabria c’è una differenza nell’aspettativa di vita in salute di ben tredici anni!

 

Questioni sostanziali

Secondo quanto previsto dall’art. 116, co. 3, Cost., nuove e ulteriori competenze potrebbero essere attribuite alle regioni in 23 materie.

Significa che tutte le regioni possono chiedere tutte le competenze in tutte le materie? È questa la linea lungo la quale si sono mosse le regioni che per prime hanno mostrato interesse a differenziarsi dalle altre: il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna[1]. Ed è questa la linea che lo Stato, fin dal 2018, sta assecondando.

È chiaro, però, che se tutte le regioni ordinarie facessero propria la medesima linea, il risultato sarebbe il superamento dell’attuale Titolo V della Costituzione al di fuori dalle procedure dettate dall’art. 138 Cost. per la modifica della Costituzione. È sufficiente, per rendersene conto, considerare che – così come richiesto dalle tre regioni “apripista” – si potrebbe giungere a regioni che assumono insegnanti, medici, infermieri e personale amministrativo; istituiscono sistemi di istruzione e sistemi sanitari separati da quelli statali; gestiscono i musei e i beni culturali; acquisiscono proprietà e gestione di strade, ferrovie, aeroporti, porti; assumono il pieno controllo di fiumi, laghi e litorale marittimo; decidono le procedure edilizie; stabiliscono i piani paesaggistici; governano il ciclo dei rifiuti e le bonifiche ambientali; si occupano completamente di rischio sismico e protezione civile; intervengono a sostegno delle imprese e della ricerca scientifica in tutti gli ambiti, anche nelle relazioni internazionali; regolano produzione, trasporto e distribuzione dell’energia; ridefiniscono ruolo e competenze degli enti locali. E altro si potrebbe aggiungere.

Non solo l’attuale riparto delle competenze scritto nell’art. 117 Cost. perderebbe ogni significato; soprattutto, lo Stato perderebbe ogni capacità agire (e di coordinare l’azione delle regioni e, al loro interno, degli enti locali) in vista della realizzazione dell’uguaglianza che, come visto all’inizio, è l’obiettivo fondamentale posto alla Repubblica dall’art. 3 Cost.

Si comprende, allora, che il solo modo costituzionalmente accettabile d’intendere l’art. 116, co. 3, Cost. è quello che rigetta come incostituzionale qualsiasi richiesta regionale non giustificabile alla luce di un’effettiva esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione ecc.) e, a maggior ragione, tutte quelle richieste che risultano così ampie da coprire tutto o quasi l’astrattamente richiedibile. Si potrebbe comprendere, per esempio, il motivo per cui il Piemonte – il cui territorio è suddiviso in oltre mille comuni, molti dei quali piccolissimi e montani – dovesse eventualmente richiedere competenze volte a far fronte a tale frammentazione; ma perché mai gli Uffizi dovrebbero essere considerati un museo da acquisire al controllo della Toscana, quando le opere che ne compongono la collezione sono parte del patrimonio culturale non di tutti i cittadini italiani, ma dell’umanità intera?

[1] Sulla sostanziale avvicinabilità della posizione dell’Emilia-Romagna a quelle di Veneto e Lombardia, sia permesso rinviare a F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: «quali ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» per Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna?, in «Federalismi.it», n. 6, 2019, pp. 1-35 e F. Pallante, Ancora nel merito del regionalismo differenziato: le nuove bozze di intesa tra Stato e Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, in «Federalismi.it», n. 20, 2019, pp. 1-46.

 

Questioni finanziarie

C’è poi, oltre a quello procedurale e sostanziale, un terzo ambito critico: quello inerente alle risorse finanziarie che dovrebbero seguire l’attribuzione delle nuove competenze alle regioni.

Tali risorse saranno definite, per ciascuna regione, da una Commissione paritetica tra Stato e regione stessa, e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione regionale del c.d. residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere almeno parte delle risorse versate al fisco. La Lombardia rivendica, per esempio, un residuo fiscale di 54 miliardi; l’Emilia-Romagna di 18 miliardi; il Veneto di 15 miliardi.

Si tratta, però, di rivendicazioni illogiche e incostituzionali. Illogiche perché a pagare le tasse sono le persone, non le regioni, e lo fanno sulla base dell’ammontare del loro reddito o patrimonio, non del luogo di residenza. Incostituzionali perché gli artt. 2 e 53 Cost. sanciscono che la solidarietà economica e tributaria deve operare a livello nazionale, non regionale.

Lo stesso dicasi per la spesa pubblica, che è destinata sempre alle persone, non alle regioni, sulla base di condizioni – la salute, l’età, i familiari a carico, la condizione lavorativa ecc. – che nulla hanno direttamente a che vedere con il luogo di residenza.

Parlare di residuo fiscale significa, in sintesi, tentare di far prevalere la “corregionalità” sulla “connazionalità”: vale a dire, di muovere incostituzionalmente verso la disgregazione dell’unità della Repubblica.

 

Conclusioni

Esistono, in conclusione, due modi d’intendere l’autonomia regionale differenziata.

Il primo considera le regioni un fine in sé e mira ad attribuire loro quante più competenze possibili – un recente documento del ministero per gli Affari regionali ne elenca quasi 500 – per potenziare al massimo l’ente regionale ai danni dello Stato e a beneficio esclusivo dei cittadini della regione. È un modo di mettere a repentaglio l’unità della Repubblica e alimentare la disuguaglianza, che si pone al di fuori del dettato costituzionale.

Il secondo considera le regioni un mezzo e mira ad attribuire loro solo le singole competenze che potrebbero produrre un reale miglioramento delle capacità d’azione della Repubblica, complessivamente intesa, nella lotta contro la disuguaglianza.

Il primo modo è quello oggi in auge, ma solo il secondo è compatibile con la Costituzione.

 

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