Il crollo del potere d’acquisto in Italia

Ragioni, conseguenze, rimedi

di Flavio Delbono, ottobre 2023

Gli ultimi due anni sono stati caratterizzati da una forte riduzione del potere d’acquisto per molte famiglie italiane. Ciò è la conseguenza di un duplice fenomeno: la ripersa dell’inflazione e la prolungata riduzione dei salari. La contrazione dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese, a causa della concomitante salita dei tassi di interesse, sta deprimendo la domanda aggregata e portando l’economia italiana in recessione.


L'autore: Flavio Delbono è professore ordinario di Economia politica presso l'Università di Bologna. Per Mondadori Education ha pubblicato i corsi Piazza affari (2019) e Scelte sostenibili (2022).

 

La perdita di valore dei salari

Una recente ricerca dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha evidenziato che, nel periodo 1990-2020, l’Italia ha registrato una riduzione nel valore medio dei salari lordi di quasi il 3%. Questo dato contrasta vistosamente con l’andamento di altri paesi, come Francia e Germania, che hanno invece sperimentato un aumento di circa il 30%. Soltanto l’Italia ha registrato una variazione negativa.


Si tratta di salari e stipendi lordi. Per ottenere indicazioni sul potere d’acquisto, occorre quindi innanzitutto passare ai valori netti, ottenuti riducendo i primi del carico fiscale (formato da oneri contributivi e tassazione). Infine, si tratta di ponderare il reddito disponibile (da lavoro) così ottenuto per il livello dei prezzi. Considerando che il nostro paese primeggia nella graduatoria del prelievo fiscale e che piuttosto alto continua ad essere anche il tasso di inflazione, il quadro che emerge è certamente di grande difficoltà per molte famiglie che, non a caso, stanno riducendo i consumi contribuendo così al rallentamento dell’economia italiana.


A conclusioni simili all’Ocse è pervenuta anche un’indagine dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), secondo la quale, tra i paesi del G20, l’Italia ha registrato la performance peggiore in campo salariale. Infatti, nel periodo 2008-22, ha sperimentato una riduzione del 12% del salario reale (- 6% soltanto nel 2022) e questa tendenza non accenna ad interrompersi nel 2023.


 

L’inflazione

Una nota di cautela è richiesta quando si discute di variazioni dei prezzi. Queste possono essere misurate attraverso indici diversi e due sono i più utilizzati. Il primo è il cosiddetto Foi, che misura i prezzi finali di un paniere di beni e servizi rappresentativi dei consumi delle famiglie di operai e impiegati (vedi l’evoluzione del paniere nel tempo a pag. 393 del corso di Economia politica per il secondo biennio Scelte sostenibili, F. Delbono e L. Spallanzani, Mondadori, 2022). Compare poi, soprattutto nelle statistiche ufficiali, il deflatore del Pil, che si riferisce alle variazioni intervenute nei prezzi di beni e servizi che hanno concorso al Pil in un paese in un dato lasso di tempo. Chiaramente i due indici si riferiscono alle variazioni dei prezzi di due differenti elenchi di beni e servizi. Ad esempio, il Foi italiano include anche il prezzo del gas importato, un bene che è escluso invece dal secondo in quanto non è prodotto nel nostro paese. Per le famiglie, ovviamente, rilevano i prezzi finali di beni e servizi, a prescindere che siano di produzione nazionale o estera.


A fronte di questo quadro macroeconomico, anche nel nostro paese le conseguenze dell’elevata inflazione sono differenziate tra le diverse tipologie di percettori di reddito. Innanzitutto, imprenditori, titolari di rendite (come locatori di immobili) e lavoratori autonomi sono meno penalizzati, in quanto riescono spesso a trasferire sui prezzi da loro praticati gli aumenti dei costi di produzione e del costo della vita. Sono stati poi particolarmente colpiti i redditi più bassi, quelli impiegati prevalentemente nell’acquisto di beni e servizi di prima necessità (come utenze e beni alimentari), che hanno sperimentato incrementi di prezzo ben superiori al tasso di inflazione. A questo proposito, si pensi all’impatto del conflitto ucraino sui prezzi di cereali, gas, carburanti, elettricità.


Occorre poi ricordare che il reddito disponibile risulta dalla somma di quello da lavoro e di quello da capitale, che consiste nei proventi ottenuti dalla gestione del proprio patrimonio, sia esso immobiliare o mobiliare (come i risparmi monetari). I titolari di attività finanziarie a tasso fisso, come depositi bancari e numerose obbligazioni, hanno subìto gli stessi effetti di una sostanziosa imposta patrimoniale, dato che il tasso reale di interesse (dato dalla differenza tra quello nominale e il tasso di inflazione) continua ad essere pesantemente negativo; nel 2022 è stato mediamente prossimo a -10%. Depositi bancari remunerati a un tasso di interesse nominale annuo di poco positivo, assieme ad un’inflazione del 10% annuo, comportano una drastica riduzione del potere d’acquisto dei risparmi così impiegati. 100 euro depositati in banca all’inizio dell’anno consentono di acquistare un controvalore in beni e servizi pari a 90 euro a fine anno.


Da dove proviene la recente spinta inflazionistica?


Contrariamente alle previsioni dei principali istituti di ricerca e delle principali banche centrali (Fed e Bce), il tasso di inflazione nel 2021 è stato del 7% negli Usa e di oltre il 5% nell’Eurozona; nel 2022 ha superato rispettivamente il 9% e il 15%. Le cause di questi andamenti senza precedenti da decenni sono riconducibili ad almeno due fenomeni. Il primo operante dal lato della domanda e il secondo a quello dell’offerta.


Aumenti dei prezzi spesso accompagnano le fasi economiche espansive. In effetti, i prezzi avevano cominciato a salire nel 2021, non solo in Italia, grazie alla crescita economica successiva alla fase acuta della pandemia di Covid-19. Tale ripresa in Italia, dopo il crollo di quasi il 9% nel Pil del 2020, è stata misurata da un incremento del 6,6% (entrambe le variazioni del Pil sono ovviamente espresse in termini reali, ovvero depurate dalla concomitante variazione dei prezzi). Gli importanti interventi pubblici di sostegno ai redditi delle famiglie, la fine del lockdown e la ripresa delle attività produttive, hanno comportato un aumento della domanda sia interna sia estera che, non trovando rapidamente un commisurato incremento dell’offerta, ha provocato aumenti dei prezzi.


L’impulso inflattivo operante invece dal lato dell’offerta ha avuto inizio nei primi mesi del 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina. Il conflitto ha prima di tutto ridotto drasticamente le capacità di produzione ed esportazione dell’economia ucraina, con conseguente scarsità di prodotti alimentari, cereali in testa, sui mercati europei. Le sanzioni economiche nei confronti della Russia, d’altra parte, hanno preso la forma di embargo totale, ovvero di divieto di intrattenere rapporti commerciali con questo Paese e ciò ha inevitabilmente comportato contraccolpi sui produttori di beni di lusso o altamente tecnologici precedentemente destinati al mercato russo. Soprattutto, però, non si è fatta attendere la ritorsione sui mercati delle fonti energetiche, gas e petrolio, che vedevano i Paesi europei fortemente dipendenti dalle importazioni russe. Soltanto nel 2022 le famiglie italiane hanno speso oltre il 60% in più per il gas e circa il doppio per l’energia elettrica rispetto all’anno precedente. Per tacere dei prezzi dei carburanti.


Eccesso di domanda sull’offerta e shock dal lato dell’offerta di alcuni prezzi essenziali si sono intrecciati in una spirale inflazionistica che sembra rallentare molto lentamente.


 

Il fronte finanziario

Le banche centrali hanno dovuto rapidamente ricorrere a politiche monetarie restrittive – a partire da un aumento dei tassi di interesse – con conseguenze pesanti sui soggetti (sia imprese sia famiglie) indebitate a tassi variabili e conseguente frenata di nuovi investimenti.


Gli effetti di questi processi sui saldi di finanza pubblica sono stati di segno contrastante. Da una parte, le maggiori spese e le minori entrate dello Stato per effetto del Covid sono esplose in termini nominali. Tuttavia, grazie all’aumento nominale del Pil conseguente all’inflazione, il rapporto deficit/Pil e quello debito/Pil sono diminuiti. Ovviamente, si tratta di un miglioramento di questi saldi ottenuto soltanto per effetto dell’aumento dei prezzi, non per un reale aumento delle entrate e/o una reale diminuzione delle spese pubbliche. In altre parole, osserviamo un debito pubblico in calo rispetto al Pil non per una maggiore disciplina fiscale, ma semplicemente perché l’inflazione ha gonfiato il denominatore del rapporto debito pubblico/Pil più di quanto il disavanzo del 2022 abbia incrementato il numeratore.


 

Che cosa si può fare?

Come abbiamo rilevato, il potere d’acquisto di un reddito dipende dall’entità di tale reddito, dal prelievo e dal livello dei prezzi. Quindi sono tre le possibili variabili sulle quali agire.


Innanzitutto, come visto sopra, salari e stipendi lordi mediamente ristagnano da tempo nel nostro paese. I contratti collettivi che regolano attualmente la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro dipendente furono siglati basandosi su aspettative inflazionistiche che sono state smentite al rialzo e che hanno provocato una grande riduzione nel potere di acquisto. In fase di rinnovo, tale perdita dovrà essere almeno parzialmente recuperata. Sappiamo che uno dei motivi del ristagno di salari e stipendi risiede nell’andamento della produttività totale dei fattori, che nel nostro paese è rimasta mediamente inalterata nell’ultimo quarto di secolo, diversamente dall’aumento osservato in altri paesi. Parliamo di produttività totale, non solo del lavoro, e la performance deludente interroga dunque aspetti strutturali del sistema produttivo nazionale, dalle dimensioni aziendali alla capacità di innovare all’efficienza della burocrazia pubblica. Miglioramenti di produttività potrebbero creare margini per una crescita anche della remunerazione del lavoro.


Circa i redditi da capitale, notiamo una forbice piuttosto ampia tra i tassi di interesse che le banche applicano ai risparmi e quelli applicati invece ai debitori. Chiaramente, ciò comporta che lo stesso bene (il denaro) viene scambiato a prezzi assai diversi a seconda che sia acquistato o ceduto. Un allineamento dei due tassi avrebbe come conseguenza un aumento della remunerazione del risparmio e dunque di una componente del reddito complessivo delle famiglie.


E veniamo all’andamento dei prezzi (posto che anche il tasso di interesse è un prezzo). Alcuni di questi, come sappiamo sono fuori dal controllo della politica economica nazionale, come nel caso dell’energia e di altri beni importati. Altri prezzi, invece, soprattutto nel campo dei servizi, risentono della scarsa concorrenza tra le imprese, siano esse di persone o di capitali. Molte situazioni cristallizzate da barriere all’entrata consentono agli operatori attuali di lucrare rendite che una maggiore apertura di questi settori potrebbe erodere. Gli esempi si sprecano e alcuni sono sotto i riflettori della cronaca economica: licenze di taxi o di stabilimenti balneari o di farmacie. Politiche di liberalizzazione, peraltro richieste con insistenza anche dall’Unione Europea e previste tra gli obiettivi del PNRR, sarebbero dunque uno strumento potente per limitare tali rendite e contenere i prezzi finali.


E infine occupiamoci dell’intervento fiscale. Si è detto che la pressione fiscale dello Stato è alta nel nostro paese e la situazione complessiva della finanza pubblica non presenta margini per prospettare una sua significativa riduzione. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l’elevata pressione fiscale è anche e soprattutto generata dalla gigantesca evasione di imposte e contributi sociali sistematicamente rilevata dal nostro paese.


Il centro studi Itinerari previdenziali ci segnala che, a giudicare dalle dichiarazioni dei redditi del 2021, il nostro paese sembra popolato prevalentemente da poveri, visto che il 60% degli italiani pare vivere con meno di mille euro lordi mensili. Col risultato che circa un quarto dei contribuenti finisce per versare il 70% dell’intero gettito Irpef e buona parte delle altre imposte (Irap, Ires ecc.). Si tratta di dati platealmente inverosimili. Tra i comportamenti che contraddicono la veridicità delle informazioni dichiarate da molti contribuenti, basti pensare alla diffusione di consumi di lusso e alla stratosferica spesa di quasi 112 miliardi di euro, prevista in aumento, per il gioco d’azzardo. Un valore che ignora ovviamente i giochi clandestini o le spese sostenute all’estero. Un valore simile alla dotazione del Fondo sanitario nazionale.


Un contrasto radicale all’evasione fiscale è la condizione necessaria, seppure non sufficiente, alla riduzione della pressione fiscale e dunque a un recupero di potere d’acquisto di tutti i contribuenti, soprattutto di quelli fiscalmente leali.