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Cesare Pavese, autoanalisi e impegno


Operatore culturale e redattore della casa editrice Einaudi (per cui lavorarono anche Vittorini e Calvino) e militante del PCI, ha affidato una costante e tormentosa analisi di se stesso e dei suoi rapporti con gli altri al diario Il mestiere di vivere, fino al suicidio con cui ha posto fine alla sua esistenza.

Tra i temi della narrativa di Pavese ricorrono l’infanzia trascorsa nel paesaggio nativo delle Langhe, il rapporto contraddittorio tra città e campagna, l’interesse per il «selvaggio, il mito, le forze primigenie che si manifestano nel singolo e nella collettività, la costruzione di sé e il bisogno di socialità». Tra i suoi romanzi di impronta neorealista ricordiamo Il compagno (1946); affrontano il tema della guerra e della resistenza La casa in collina (’47-48), in cui il protagonista Corrado, professore a Torino, cerca inutilmente di sfuggire alla guerra, e La luna e i falò (’49-50), in cui Anguilla racconta il suo ritorno dall’America sulle native colline, dove cerca le tracce della sua infanzia e delle persone conosciute da bambino, la cui esistenza è stata travolta dalla guerra: agli antichi falò propiziatori accesi sulle colline si sovrappone l’immagine dei più recenti falò di morte.

Nell’ultima pagina di La casa in collina si esprime il coraggio dell’autoanalisi (il protagonista si rende conto di essersi isolato dalla guerra, di aver vissuto una «futile vacanza») ed esprime un’amara riflessione, etica ed esistenziale, sul senso della guerra: «Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».