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E. M. Remarque: Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928)


La spiegazione del titolo ci è data solo nelle ultime righe del romanzo: «Egli [il protagonista] cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così».

La guerra uccide e non ha alcun significato che un uomo muoia. È un evento che, sullo sfondo delle grandi masse che si muovono sui campi di battaglia, non incide né sulla vittoria né sulla sconfitta. Per questo «Niente di nuovo sul fronte occidentale». Ma, in realtà, è morto un uomo che il lettore conosceva e attraverso i cui occhi aveva visto gli orrori della guerra. La violenza ha trasformato i singoli uomini, ciascuno con la propria vita vissuta, i propri pensieri e le proprie emozioni, in un niente anonimo. L’effetto peggiore è la riduzione degli esseri umani a carne da macello, cose e non più uomini. Il contrasto tra il bollettino di guerra, che rappresenta la guerra ufficiale, e la triste e concreta realtà di un uomo morto, è netto e tanto più accentuato dalla calma e dal silenzio di quella giornata al fronte quando ormai la sconfitta della Germania era vicina. La guerra stava per finire, di lì a pochi giorni gli Imperi centrali si sarebbero arresi. Sarebbe bastato resistere ancora il minimo necessario. Ma Paolo Baumer non ce l’ha fatta proprio all’ultimo momento. Il suo volto tranquillo nella morte esprime un senso di liberazione che pare andare al di là della stessa esperienza della guerra e sembra voler indicare una contentezza per non dovere neppure condividere, con coloro che ancora sono vivi, le tragiche vicende di una Germania sconfitta e distrutta.


I giovani e la guerra

La presentazione del protagonista (Paolo Baumer) e dei suoi amici ci fornisce da subito un ritratto della generazione che è in guerra: «Tutti e quattro di diciannove anni, tutti e quattro partiti dalla stessa aula scolastica per andare in guerra». Sono giovani che ancora frequentavano la scuola quando scoppiò la guerra. Sono quei giovani di cui Remarque dice in apertura del romanzo: «una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra». L’inizio sembra rimandare alla fine. La morte di Baumer è stata liberazione dalla guerra ma anche liberazione da una condizione postbellica forse ancora più difficile. I giovani che combatterono o morirono sul campo o rimasero per sempre distrutti dall’esperienza della guerra.

Dirà Baumer (dopo un anno di trincea):

« Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il terrore, e la insensata superficialità congiunta con un abisso di sofferenza …Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo e andremo davanti a loro a chieder conto? Che aspettano essi da noi, quando verrà il tempo in cui non vi sarà guerra? Per anni e anni la nostra occupazione è stata di uccidere, è stata la nostra prima professione nella vita. Il nostro sapere della vita si limita alla morte. Che accadrà, dopo? Che sarà di noi?».

Questi giovani sono passati direttamente dai banchi di scuola alla guerra. Il primo lavoro che essi hanno fatto è la guerra e l’unica cosa, quindi, che sanno fare è la guerra. Le preoccupazioni di Baumer sono quelle di Remarque, che scriveva alla fine degli anni Venti, quando in Germania si fanno aspri gli scontri politici e già si profila all’orizzonte un epilogo drammatico.

Il rapporto giovane/adulto si è ribaltato nella guerra. Sono i giovani più pronti a imparare la difficile arte di uccidere e di sopravvivere. Ciò che ha insegnato la scuola è totalmente inutile adesso: «Nessuno invece ci ha insegnato a scuola come si accende una sigaretta sotto la pioggia e il vento, come si faccia prendere fuoco a un fascio di legna bagnata; oppure come convenga piantare ad uno la baionetta nella pancia, perché se si pianta fra le costole vi rimane conficcata». E ancora: «Imparammo che un bottone lucido è più importante che non quattro volumi di Schopenhauer». Paradigmatico è l’incontro, al fronte, col vecchio professore Kantorek, anche lui soldato: «Che faccia di stupido con quel pignattino in testa e quell’uniforme! E dire che davanti a un simile essere si tremava di paura, quando troneggiava in cattedra e sembrava volerci infilzare con la punta della matita, nel chiederci i verbi irregolari francesi, che poi in Francia non ci hanno reso alcun servizio. Non sono passati due anni… ed ecco qua, rotto l’incanto, il milite territoriale Kantorek, con le ginocchia storte e due braccia ad ansa, coi bottoni sporchi e un portamento ridicolo, un soldato impossibile». Non è più lui il vero insegnante, loro che erano i suoi allievi sono molto più bravi nell’arte della guerra. Il vecchio professore ha perso tutta la sua autorità perché non ha niente da insegnare. Ma, nelle considerazioni di Baumer, c’è una profonda tristezza. Quando fa un paragone tra i giovani e gli anziani in guerra dice che gli uni, i giovani, quando la guerra sarà finita non sapranno cosa fare perché sapevano solo fare la guerra, gli altri, gli anziani, invece torneranno alle loro professioni, alla loro famiglia e riprenderanno una vita interrotta.


Il nemico

I momenti di maggiore impatto emotivo, nel romanzo, sono quelli in cui viene raffigurato il nemico, quando colui contro cui è rivolta la guerra si mostra come un semplice essere umano.
Il primo episodio si riferisce alla visita di Baumer al campo dove sono rinchiusi i prigionieri russi: «Fa un effetto strano vedere così da vicino questi nostri nemici. Hanno facce che fanno pensare, buone facce di contadini; larghe fronti, nasi schiacciati, grosse labbra, grosse mani, capelli lanosi … Hanno l’aspetto anche più mite e buono dei nostri contadini frisoni». I russi, visti da vicino, non differiscono molto dai contadini tedeschi: «Un ordine ha trasformato queste figure silenziose in nemici nostri; un altro ordine potrebbe trasformarli in amici». Essere nemici o amici è un arbitrio che altri decidono. Una guerra stabilisce che un uomo è nemico. Ma il nemico, visto da vicino, è uguale a noi.

L’altro episodio riguarda il tipografo francese Gerard Duval. Baumer l’ha ucciso in uno scontro, vorrebbe aiutarlo. Quando Duval muore, Baumer vuole sapere chi ha ucciso: «Io dunque ho ucciso il tipografo Gerard Duval. Io devo diventar tipografo, penso tutto smarrito, devo diventar tipografo, tipografo…». Finché si uccide un uomo senza nome, la cosa è ancora tollerabile, ma appena si scopre l’identità di chi si è ucciso e si conosce qualche aspetto della sua vita, l’inutilità e l’insensatezza della guerra si rivelano per quello che sono.