Alle origini del premierato

Schema teorico e riferimenti comparatistici

di Giacomo Delledonne, aprile 2024

Per le sue caratteristiche, la forma di governo delineata dal progetto di revisione costituzionale relativo al premierato rappresenta un unicum nel panorama comparatistico. È tuttavia possibile rintracciarne le origini nel dibattito istituzionale e identificare punti di contatto con esperienze costituzionali presenti e passate.


L'autore: Giacomo Delledonne è ricercatore in Diritto costituzionale nella Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ed è coautore del volume “Populismo e Costituzione. Una prospettiva giuridica”, edito da Mondadori Università.

 

1. Il premierato: un unicum italiano?

Un ragionamento comparatistico sul c.d. premierato deve muovere dai contenuti del d.d.l. cost. A.S. 935. In estrema sintesi, questo progetto di revisione costituzionale mira a:

  • introdurre l’elezione diretta del Presidente del Consiglio;

  • assicurargli una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento;

  • collegare la durata della legislatura a quella del Governo.


Quest’ultimo punto è il più controverso, come dimostrano le oscillazioni riguardanti sia lo scioglimento automatico delle Camere, sia la possibilità che un secondo Presidente del Consiglio, distinto da quello eletto a suffragio diretto, sia investito nel corso della legislatura.

Si tratta, perciò, di prendere in considerazione assetti istituzionali che presentino questi elementi (o alcuni fra essi): l’elezione popolare del capo del Governo, in quanto figura distinta dal Capo dello Stato; la presenza di regole che assicurino al capo del Governo eletto una maggioranza in Parlamento; il legame fra la vita dell’Esecutivo e la durata della legislatura, con la previsione di ipotesi di scioglimento automatico del Parlamento.

Se queste sono le coordinate di riferimento, una forma di governo in tutto e per tutto analoga a quella delineata nel d.d.l. governativo non trova riscontro in nessuna democrazia costituzionale. È possibile, tuttavia, ricostruire una genealogia intellettuale di questo schema di rapporti fra Legislativo ed Esecutivo e individuare profili di somiglianza, sia pure parziali, con alcune esperienze costituzionali presenti e passate.

 

2. Le origini nel dibattito francese

Se si guarda al dibattito di idee, il punto di partenza dev’essere individuato in Maurice Duverger (1917-2014), influente protagonista del dibattito istituzionale nel secondo dopoguerra. In due articoli pubblicati sul quotidiano Le Monde nel 1956, Duverger prospettava possibili rimedi alla cronica instabilità dei governi della IV Repubblica francese retta dalla Costituzione del 1946. Al fine di avvicinare il funzionamento della forma di governo transalpina all’esperienza britannica dei governi di legislatura, Duverger proponeva di introdurre l’elezione diretta non già del Presidente della Repubblica, bensì del Presidente del Consiglio. L’elezione del Presidente del Consiglio avrebbe avuto luogo in coincidenza con l’elezione dell’Assemblea nazionale, in modo che questi due organi costituzionali risultassero «indissolubilmente legati». L’Assemblea nazionale sarebbe rimasta titolare del rapporto di fiducia; tuttavia, l’approvazione di una mozione di sfiducia avrebbe comportato, al tempo stesso, le dimissioni del Governo e lo scioglimento dell’Assemblea. Le medesime conseguenze sarebbero derivate dalle dimissioni volontarie del Presidente del Consiglio.

In contributi successivi Duverger avrebbe parlato di regime neoparlamentare per definire questa ipotesi di revisione della forma di governo. L’obiettivo perseguito da questa proposta – e da altre affini – era introdurre nell’ordinamento congegni istituzionali che rendessero possibili governi di legislatura, in analogia con quanto avveniva oltremanica grazie alle regole e alle convenzioni della unwritten constitution britannica. Si trattava di una preoccupazione di lungo periodo della riflessione politico-istituzionale francese, come rivelano alcuni scritti di Léon Blum apparsi già nella prima metà del secolo.

Le proposte di Duverger furono riprese dagli intellettuali e dagli alti funzionari – per lo più schierati su posizioni di sinistra non comunista – che ruotavano attorno al Club Jean-Moulin. Tuttavia, le idee di Duverger e del Club Jean-Moulin non trovarono attuazione nella Francia di allora. La crisi terminale della IV Repubblica portò all’adozione di una nuova Costituzione, entrata in vigore il 4 ottobre 1958: la Costituzione della nuova Repubblica, la Quinta, era caratterizzata da un deciso rafforzamento delle prerogative del Governo nei confronti del Parlamento e fu completata, nel 1962, dall’introduzione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Il nuovo testo costituzionale e la prassi del primo Presidente della V Repubblica, il generale de Gaulle, sono all’origine di una diversa forma di governo, che in Italia viene generalmente definita semipresidenziale.

In Italia la proposta di Duverger trovò eco, fra l’altro, nel dibattito su La Costituzione e la crisi, ospitato nel 1973 dalla rivista Gli Stati. Si tratta di un passaggio importante nel dibattito italiano sulle riforme istituzionali: nei loro interventi fecero riferimento alla combinazione fra elezione diretta del Presidente del Consiglio e scioglimento automatico delle Camere i giuristi Aldo M. Sandulli, Serio Galeotti e, con alcune differenze di impostazione, Costantino Mortati.

 

3. L’effimera sperimentazione israeliana

Se dal dibattito politico-istituzionale si volge l’attenzione verso esperienze concrete, a oggi l’unico caso di un ordinamento a forma di governo parlamentare in cui sia stata introdotta a livello nazionale l’elezione diretta del capo del Governo – mantenendo ferma, invece, l’elezione del Capo dello Stato da parte dell’assemblea rappresentativa – è Israele.

Fin dalla sua costituzione, lo Stato di Israele si caratterizza per una forma di governo parlamentare. La Knesset, il Parlamento monocamerale di Israele, è eletta con metodo proporzionale. Unitamente alla presenza di soglie di sbarramento assai modeste, ciò fa sì che nella composizione della Knesset risulti fedelmente rispecchiata l’eterogenea società israeliana. La grande frammentazione del sistema partitico – e, di riflesso, della Knessetnon favorisce la formazione e la permanenza in carica di governi stabili, sostenuti da maggioranze parlamentari coese. Questo problema è diventato via via più pressante dopo la fine della lunga egemonia laburista, che aveva caratterizzato i primi tre decenni di esistenza dello Stato ebraico.

La breve esperienza neoparlamentare israeliana si colloca all’interno dell’inesausto dibattito sul mutamento costituzionale in un ordinamento privo di una Costituzione rigida e unidocumentale. Nel 1992 venne ad aggiungersi al corpus delle Basic Laws di Israele la Basic Law: The Government, che sostituì l’atto omonimo risalente al 1968.

La Basic Law: The Government introduceva due principi: l’elezione del Primo ministro a suffragio universale diretto e la simultaneità fra elezione del Primo ministro ed elezione della Knesset. Sia la Knesset sia il Primo ministro erano eletti per un periodo di quattro anni. Risultava eletto Primo ministro il candidato che avesse riportato la maggioranza assoluta dei voti validi; era possibile, quindi, lo svolgimento di un ballottaggio fra i due candidati più votati al primo turno. Per l’elezione della Knesset, invece, rimaneva in vigore una legge elettorale proporzionale.

Entro 45 giorni dalla pubblicazione dei risultati elettorali, il Primo ministro doveva comparire dinanzi alla Knesset per presentare la lista dei ministri e il programma del suo Governo. Subito dopo, la Knesset era chiamata a esprimere la fiducia al nuovo Governo. Se ciò non fosse avvenuto, la conseguenza sarebbe stata la convocazione di elezioni anticipate sia per il Primo ministro sia per la Knesset. Il significato di questa previsione, piuttosto diversa dallo schema di Duverger e introdotta su richiesta del Partito nazionale religioso, dev’essere rintracciata nel tentativo di conciliare la leadership del Primo ministro, rafforzato dall’investitura popolare diretta, con la logica dei gabinetti di (larga) coalizione, tipici di Israele.

Stando all’art. 19 della Basic Law: The Government, dall’approvazione di una mozione di sfiducia nei confronti del Primo ministro e dalla mancata approvazione della legge di bilancio entro tre mesi dall’inizio dell’anno finanziario sarebbe automaticamente derivato lo scioglimento anticipato e, conseguentemente, la convocazione di elezioni per il rinnovo della Knesset e del vertice dell’Esecutivo.

Questo modello, in sé lineare, era completato da numerose ipotesi di elezioni straordinarie, in cui gli elettori israeliani sarebbero stati chiamati alle urne per scegliere un nuovo Primo ministro (ma non una nuova Knesset). Ciò sarebbe accaduto, ad esempio, se il Primo ministro non si fosse presentato dinanzi ai deputati entro 45 giorni dalla pubblicazione del risultato elettorale (art. 15), in caso di dimissioni volontarie o morte del Primo ministro (artt. 23 e 28) o se la Knesset lo avesse rimosso dall’incarico in seguito a una condanna penale (art. 26). In sostanza, il principio della coincidenza fra mandato del Primo ministro e legislatura della Knesset era soggetto a numerose, importanti eccezioni.

Il modello neoparlamentare israeliano trovò applicazione in tre consultazioni elettorali. Nel 1996 il leader del Likud Benjamin Netanyahu prevalse di misura sul candidato laburista Shimon Peres; allo stesso tempo, nelle elezioni per la Knesset il Partito laburista risultò leggermente più forte del Likud. Nel 1999 le difficoltà incontrate dal Governo Netanyahu durante l’esame parlamentare del progetto di legge di bilancio portarono a elezioni anticipate. Il candidato laburista Ehud Barak si impose nettamente su Netanyahu; al tempo stesso, il Partito laburista, pur perdendo numerosi voti e seggi, rimase la formazione più forte all’interno della Knesset. Il 9 dicembre 2000 Barak presentò le dimissioni ai sensi dell’art. 23 della Basic Law: The Government. Nelle successive elezioni straordinarie, convocate per il 6 febbraio 2001, Barak subì una secca sconfitta ad opera del nuovo leader del Likud, Ariel Sharon. La Knesset eletta nel 1999, invece, rimase in carica fin quasi alla scadenza naturale della legislatura, nel 2003. I tre Primi ministri israeliani eletti fra il 1996 e il 2001, pur potendo contare su un’investitura popolare diretta, dovettero fare i conti con le dinamiche tipiche del multipartitismo estremo di Israele. Ciò ne compromise, in certa misura, l’autorevolezza, tanto che né Netanyahu né Barak furono rieletti quando si ripresentarono davanti agli elettori.

Nel 2001 la Basic Law: The Government fu nuovamente modificata, con l’eliminazione dell’elezione diretta del Primo ministro e il ritorno a una forma di governo parlamentare con alcuni elementi di razionalizzazione, come l’introduzione della sfiducia costruttiva.

 

4. Spunti dall’America Latina

Un’esperienza che merita di essere menzionata in chiusura di questa rassegna comparatistica è quella dell’Ecuador. Il paese andino, come gran parte degli Stati latinoamericani, si caratterizza per una forma di governo presidenziale. La Costituzione ecuadoriana del 28 settembre 2008 attenua la rigida separazione dei poteri caratteristica della forma di governo presidenziale, attribuendo al Presidente della Repubblica il potere di sciogliere l’Assemblea nazionale «quando, a suo avviso, questa si sia arrogata funzioni che non le spettano sulla base della Costituzione, previa decisione favorevole della Corte costituzionale; o se ostacola in maniera ripetuta e ingiustificata l’esecuzione del Piano nazionale di sviluppo, o per una grave crisi politica e agitazione interna» (art. 148). L’esercizio del potere di scioglimento da parte del Capo dello Stato ha come conseguenza la convocazione di elezioni legislative e presidenziali anticipate.

A oggi, questo istituto, noto in Ecuador come “morte incrociata” (muerte cruzada), ha trovato applicazione soltanto una volta, nel 2023. Mentre l’Assemblea nazionale stava avviando il procedimento di impeachment (juicio político) nei confronti del presidente Guillermo Lasso Mendoza, questi reagì sciogliendo il Parlamento. Nel suo decreto il presidente faceva riferimento alla “grave crisi politica e agitazione interna”. La Corte costituzionale si pronunciò in senso favorevole alla decisione del Capo dello Stato.