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Primo Levi: Se questo è un uomo
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La testimonianza di Primo Levi: Se questo è un uomo (1958)


Il sistema del lager

«Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l’odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c’era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l’empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l’oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli.
«Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo.»

L’ambiente nel quale si svolge la vicenda è costituito dal lager e da pochi altri luoghi a esso connessi: il campo di prigionia in Italia, la tradotta dell’orrendo viaggio verso Auschwitz, i campi di lavoro adiacenti alle barriere di filo spinato, la Buna.
Il lager ha dunque dei contatti con l’esterno, ma una delle sue caratteristiche determinanti consiste nell’essere un mondo a sé, definito da regole e relazioni che paiono stravolgere l’idea stessa della realtà, del mondo familiare agli esseri umani. L’istituzione dei campi di concentramento da parte del regime nazista costituisce il culmine di una politica antisemita perseguita fin dall’ascesa al potere di Hitler. Obiettivo primario era la distruzione della razza ebraica (la cosiddetta «soluzione finale»); inoltre, attraverso lo sfruttamento senza limiti del lavoro forzato degli ebrei, la Germania manteneva un’elevata produttività industriale, nonostante l’impegno militare. Nell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale furono ridotte le selezioni degli ebrei internati proprio in relazione alle necessità di manodopera. Fu questo un fattore che favorì la sopravvivenza di un certo numero di prigionieri, tra cui probabilmente lo stesso Levi.


L’analisi dell’universo concentrazionario

Dopo il terribile viaggio nei vagoni blindati, l’arrivo al campo di concentramento introduce i deportati in un meccanismo che annulla personalità, rapporti di parentela, differenze sociali, volontà, desideri, paure.

Nel capitolo 2, Sul fondo, Levi descrive come inizia la «demolizione di un uomo», in un inferno modernamente pianificato: il narratore, come i suoi compagni, viene privato dell’identità, contrassegnato con un numero, diventa un «Haftlinge» (prigioniero di un campo di concentramento).

Gli «Haftlinge» lavorano nella Buna, divisi in circa duecento Kommandos, ciascuno comandato da un kapo. Vi sono Kommandos adibiti a compiti diversi e a essi si viene assegnati da uno speciale ufficio del lager. Le decisioni vengono prese in base a criteri sconosciuti, spesso in base a corruzioni e protezioni, mai secondo logica e morale comuni.
Tre categorie di prigionieri sono presenti nel lager: criminali, politici, ebrei, trattati peggio di tutti.
Dal lager non si esce, se non con le «selezioni». Nel capitolo 13, Ottobre 1944, l’autore narra come viene annunciata una «Selekcja», come i prigionieri si preparano ad affrontarla, come essi sono «selezionati», quali sono le loro reazioni. Si può sperare di sfuggire a una selezione ma si sa che presto ne verrà un’altra, imprevedibile e inesorabile per gli «Haftlinge», in condizioni sempre peggiori per gli stenti e la fatica.
Nel lager l’uomo è privato del controllo sul proprio tempo: il presente è percepito attraverso gli stimoli primari, mai del tutto placati, della fame, della fatica, del freddo; il passato è negato (nulla è stato lasciato agli «Haftlinge» della loro vita precedente, neppure il nome) e anche il ricordo non è coltivato perché troppo doloroso; il futuro non esiste, poiché non c’è nessuna sicurezza di giungere al giorno dopo, non c’è speranza, non c’è che il sogno del ritorno, uguale per tutti i prigionieri (ma nessuno ascolta i loro racconti), e il sogno, anch’esso collettivo, di mangiare. Nel gergo del campo la parola “domani” significa “mai”.

Il dovere di non dimenticare

I sommersi e i salvati - Il canto XXVI dell’Inferno di Dante - La voce del narratore

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