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J. Roth: Tarabas (1934)


Lo scrittore austriaco che per metà si sentiva ebreo e spiritualmente molto legato alle vicende del mondo yiddish e degli shetl (i villaggi ebraici dell’Europa orientale), nel romanzo Tarabas, del 1934, racconta, con un registro fra il fiabesco e l’epico, ma con una desolata visione della storia, le avventure di un feroce uomo d’armi ucraino «che non amava la vita e non temeva la morte» attraverso le vicende cruciali che visse la Russia fra il 1914 e la rivoluzione sovietica.
Nel brano che segue si descrive con efficacia l’innescarsi di un pogrom, cioè di uno degli episodici tumulti e saccheggi antiebraici che scoppiavano nei villaggi dell’Est. Questi eventi attestano la presenza di endemici e carsici sentimenti antisemiti, prodromi della più pianificata e massiccia politica del Terzo Reich.

In questo caso, per un amaro paradosso, i contadini cristiani scatenano la loro violenza suggestionati da un evento ritenuto prodigioso, un’immagine della Madonna su un muro (il “miracolo” a cui si fa riferimento nel testo):

«Quando i contadini arrivarono con la nera frotta degli ebrei, Ramsin gridò: “Fate posto agli ebrei!” E la folla inginocchiata e stesa a terra aprì un varco. Mentre i poveretti, a uno a uno o a due a due, venivano spinti innanzi, ci fu questo o quel contadino che, interrompendo la preghiera e la meditazione, sputò.
«Quanto più gli ebrei si avvicinavano al miracolo, tanto più frequenti e furiosi si facevano gli spunti sui loro abiti neri, e presto molte tracce di saliva argentea rimasero appiccicate ai loro caftani, un muco giallastro, un’orrenda, astrusa specie di folli bottoni. Era ridicolo e orribile. Si costrinsero gli ebrei a inginocchiarsi. E quando furono in ginocchio e con visi paurosi e sperduti si guardavano a destra e a sinistra, come per accertarsi dove il pericolo maggiore li minacciasse e, nel più grande timore davanti alle candele e alla immagine che illuminavano, cercavano di voltare via la testa Ramsin gridò improvvisamente dal fondo:
«“Cantate!” E mentre i credenti intonavano per la ben cinquantesima volta l’Ave Maria, gli ebrei nel loro terrore mortale cominciarono a emettere dalle gole strozzate dei suoni spaventosi [...]. “In piedi!” comandò Ramsin. Gli ebrei si alzarono con la debole, ridicola speranza di essere ormai liberati dalla loro pena. “Su, fratelli!” disse ora la voce terribile di Ramsin. “Accompagnamoli a casa!” E la maggioranza dei devoti lasciò il luogo del miracolo. Uomini in uniforme e contadini, con fruste, bastoni e falci in mano, spinsero la negra frotta degli ebrei lungo la strada notturna, malamente illuminata. Penetrarono a forza in ciascuna delle piccole casette, spensero i lumi, ordinarono agli ebrei di riaccenderli perché si sapeva che la loro legge proibiva di farlo il sabato. Alcuni contadini, dopo averne tolto i mozziconi accesi, nascondevano i candelieri sotto i propri vestiti, poi si divertivano ad avvicinare le candele a tutte le cose combustibili che fossero a portata di mano e a incendiarle. Così, presto ardevano tovaglie, tendine e lenzuola. I bambini ebrei alzavano grida lamentose, le donne si strappavano i capelli, chiamavano i nomi dei loro uomini che avevano un suono così ridicolo e indecoroso per i persecutori da farli sghignazzare fino alle lacrime. Molti imitavano il piagnisteo dei bambini e delle donne. Si levò nell’aria un tumulto veramente pazzesco».