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Il surrealismo


Max Ernst

Pittore e scrittore tedesco (Bruhl, Colonia 1891-Parigi 1976), passa attraverso diversi movimenti d’avanguardia: espressionismo, dadaismo, metafisica e infine surrealismo. Nei quadri e collage mescola soggetti eterogenei, creando situazioni ambigue e inquietanti. Nelle varie tecniche sperimentate esalta la casualità. Tra le opere significative ricordiamo C’est le chapeau qui fait l’homme (1929, la serie di stampe-collage Femmes cent têtes e Une semaine de bonté), in queste ultime Ernst fa ricorso a illustrazioni estrapolate da feuilletons ottocenteschi e concentra l’attenzione su aspetti conflittuali del rapporto uomo-donna. Vi sono trasparenti rimandi a Freud: vicino a figure femminili colloca nidi, uova… l’uomo è sempre visto come aggressore: la sua testa è sostituita con quella d’un’aquila, trafigge con un coltello ed è associato a diversi simboli fallici.

Ernst dichiara di trarre le sue immagini da repertori consueti, come appunto i romanzi popolari, ma poi li elabora sotto l’effetto di una intensa eccitazione delle facoltà visive. Stando alla sua Autobiografia, fa risalire la “scoperta” a prima dell’esperienza surrealista, nel 1919, e questo conferma il suo ruolo di anticipatore.

«Un giorno dell’anno 1919, trovandomi con un tempo piovoso in una villa sulla riva del Reno, fui sorpreso dall’ossessione che esercitavano sul mio sguardo irritato le pagine di un catalogo illustrato dove figuravano degli oggetti per dimostrazioni di carattere antropologico, microscopico, psicologico, mineralogico, paleontologico. Vi trovavo riuniti elementi di figurazione talmente distanti che la stessa assurdità di questo insieme provocò una subita intensificazione delle mie facoltà visionarie e fece nascere in me una successione allucinante di immagini contraddittorie, immagini doppie, triple e multiple, sovrapponendosi le une alle altre con la persistenza e la rapidità proprie dei ricordi d’amore e delle visioni del dormiveglia. Queste immagini chiedevano nuovi piani per i loro incontri in un nuovo piano sconosciuto (il piano della non-convenienza). Era sufficiente, allora, aggiungere su queste pagine di catalogo, dipingendo o disegnando, e per fare ciò riproducendo docilmente soltanto quello che vedevo in me, un colore, un segno di matita, un paesaggio estraneo agli oggetti rappresentati, il deserto, un cielo, uno spaccato geologico, un pavimento, una sola linea dritta come orizzonte, per ottenere un’immagine fedele e immobile della mia allucinazione; per trasformare in dramma, rivelatore dei miei più segreti desideri, ciò che poco prima non erano che banali pagine di pubblicità»
(Max Ernst, Autobiografia, Ed. Cahiers d’Art, Paris 1936).

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