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Dai governi delle forze antifasciste alle elezioni del 1948

Il primo governo della neonata repubblica, presieduto da Parri, cui presto succedette De Gasperi, fu costituito dai tre partiti di massa antifascisti, PCI, PSIUP e DC. Ma, acuito anche dal quadro internazionale che si avviava verso la “guerra fredda”, presto si delineò lo scontro di classe tra le forze moderate guidate dalla Democrazia cristiana, sostenuta dal mondo padronale e dagli Stati Uniti, e le masse proletarie rappresentate dai partiti della sinistra che guardavano all’esempio dell’Unione Sovietica. Nel ’47 si concluse la fase della coalizione di tutte le forze antifasciste. Nelle elezioni del 1948 i due schieramenti si fronteggiarono con notevole asprezza: gli USA fecero manifestamente pesare l’aiuto economico erogato col piano Marshall (l’attivissimo ambasciatore americano J. Dunn ammonì esplicitamente che in caso di vittoria comunista gli aiuti all’Italia sarebbero stati interrotti). Con la DC era schierata anche la Chiesa cattolica; a pochi giorni dal voto il pontefice Pio XII ammoniva: «la grande ora della coscienza cristiana è suonata»; insigni prelati avvertivano che era peccato mortale non votare o votare «per le liste e i candidati che non danno sufficiente affidamento di rispettare i diritti di Dio, della Chiesa e degli uomini»; mentre i parroci mescolavano alle prediche appelli al voto a favore della DC. Un manifesto elettorale democristiano riportava lo slogan «nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no».

Un evento che suscitò un vasto clamore fu il colpo di stato di Praga, giustificato dalla stampa di sinistra italiana come una «vittoria popolare» contro il «complotto americano», mentre l’informazione di diverso orientamento lo considerava un’anticipazione di ciò che sarebbe potuto accadere in Italia se avesse vinto il Fronte popolare.
La DC vinse le elezioni con il 48,5 per cento dei suffragi, ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. Il fronte unito delle sinistre sconfitto vide al suo interno la netta prevalenza del PCI, che aumentò i suoi consensi, mentre il PSI subì un crollo catastrofico. Fu l’inizio dell’egemonia democristiana che durerà per decenni.

Pochi mesi dopo si verificò un fatto estremamente drammatico: l’attentato a Togliatti. Ecco come ricostruisce le reazioni popolari lo storico Paul Ginsborg: «Il 14 luglio, un fanatico isolato di nome Antonio Pallante sparò a Togliatti mentre usciva dal parlamento e lo ferì seriamente. Quando si diffusero per il paese le notizie dell’accaduto, i negozi abbassarono le saracinesche, gli operai deposero i loro attrezzi, le piazze si riempirono di una folla adirata che interpretava lo sparo come l’inizio di un attacco alla sinistra. Fu questo l’ultimo momento insurrezionale del dopoguerra. Tutte le frustrazioni dei tre anni precedenti – il freno posto al movimento partigiano, il fallimento delle riforme, l’umiliazione della disoccupazione di massa, la sconfitta del Fronte popolare – tornarono in superficie.

«In Italia centrale, ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata, un poliziotto e un carabiniere furono uccisi mentre i minatori si impossessarono della centralina telefonica che controllava tutte le comunicazioni tra il Nord e il Centro. A Torino gli operai occuparono la Fiat e presero sedici ostaggi tra i quali l’amministratore delegato Valletta. A Venezia e Mestre furono eretti blocchi stradali sul ponte della laguna e gli operai si misero a guardia delle fabbriche chimiche e degli impianti petroliferi.
«In una città, Genova, il movimento di protesta assunse chiaramente il potere.
«[...] I dirigenti comunisti intervennero dovunque rapidamente per evitare quello che ritenevano sarebbe stato un tragico errore. Già il 16 luglio erano faticosamente al lavoro cercando di convincere i propri militanti a levare i blocchi stradali, smantellare le barricate, rilasciare gli ostaggi e tornare al lavoro. Il 18, De Gasperi ripartì all’offensiva. Un’ondata di repressione si abbatté in tutte quelle zone che avevano reagito con maggiore vigoria alle notizie del tentato assassinio. Ad Abbadia San Salvatore e dintorni 147 abitanti furono arrestati e messi sotto processo. Il 15 luglio molti di loro avevano sinceramente creduto che stesse per sorgere un nuovo periodo fascista, che Togliatti avesse avuto lo stesso destino di Matteotti, che fosse giunto il momento di combattere fino alla fine. Essi, in realtà, avevano torto e ragione al tempo stesso: non c’era alcuna possibilità di un ritorno al fascismo, ma la battaglia iniziata nel settembre 1943, e che aveva spinto molti di loro ad arruolarsi nelle Brigate Garibaldi e a combattervi, era stata definitivamente perduta con l’estate del ’48»
(P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi).

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