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A. Solzenicyn: Una giornata di Ivan Denisovic (1962)


Lo scrittore, nato nel 1918, subisce, nel periodo staliniano, 11 anni di lavoro forzato nei gulag siberiani. Rimane ostracizzato anche dopo il 1956, quando inizia il processo di destalinizzazione, tanto che non si reca nemmeno a ritirare il premio Nobel nel 1970, per paura che non gli venga concesso il rientro in patria.

La sua affermazione internazionale è legata al racconto lungo Una giornata di Ivan Denisovic, del 1962, in cui descrive le terribili condizioni in cui si trovano i reclusi nei campi.
L’autore tornerà sul tema con altre opere. Particolarmente incisivo Arcipelago Gulag, del 1974. Dopo un forzato esilio negli USA, Solzenicyn è potuto tornare in Russia solo con la caduta del comunismo.
Le pagine di Ivan Denisovic presentano una varia umanità costretta a vivere in condizioni subumane, in balia di un imperscrutabile, cieco e assurdo potere. Per certi versi riecheggia la prosa di Levi, quando descrive la quotidianità nel lager (vedi percorso sulla Shoah).

Oltre gli orrori fisici ampiamente prevedibili (freddo, fame, sfinimento, disumanità dei carcerieri...) grava sul protagonista la coartazione psicologica e relazionale che un sistema concentrazionario induce. Si cerca di annullare l’individualità, di reificare, far diventare cosa l’essere umano.
«Nei campi e nelle prigioni Ivan Denisovic si era disabituato a pensare a che cosa avrebbe fatto fra un giorno o fra un anno e come avrebbe mantenuto la famiglia. Per lui pensavano a tutto i capi: era più facile vivere...»
«Nel campo la squadra è fatta in modo che il capo non abbia bisogno di aizzare i detenuti, ma siano i detenuti ad aizzarsi l’un l’altro. Lì si usa così: o un supplemento di rancio per tutti, o crepate tutti. Devo patir io la fame se tu, brutta carogna, non lavori? No. Sgobba, merdoso!» (Una giornata di Ivan Denisovic).