Letteratura

Sciascia - Calvino
Orwell
Solzenicyn

Filosofia

Storia
Bibliografia
Link









L’esperienza in divisa sotto il fascismo di Sciascia e Calvino


Due fra i maggiori autori della letteratura italiana attivi nella seconda metà del Novecento hanno vissuto da ragazzi l’esperienza dell’inquadramento nelle organizzazioni premilitari del fascismo negli anni Quaranta e ce ne hanno lasciato testimonianza in loro opere apparse prima della loro più matura e compiuta stagione creativa. Sono Leonardo Sciascia e Italo Calvino. Può essere utile leggere in parallelo passi dei testi in cui, pur in contesti diversi, uno a Racalmuto, nell’interno della Sicilia, l’altro a San Remo, forzati a indossare una divisa e ad affrontare prove per cui sentivano disgusto, esprimono la prima presa di coscienza contro un regime che li coarta in quanto spiriti liberi.

La contiguità fra i due autori, che poi presero strade tanto diverse pur trovandosi sempre accomunati dall’impegno civile, è data dalla contemporaneità delle rispettive pubblicazioni (Calvino nel ’53 e Sciascia nel ’55) e dal fatto che, giovani scrittori alle prime armi, fanno uscire i loro romanzi brevi sulla medesima rivista, «Nuovi argomenti».
A distanza di un quindicennio circa rievocano un momento della loro giovinezza marchiato dall’invadenza di forme oppressive, ma l’aspetto conculcante e retorico del fascismo di fronte ai loro occhi viene demistificato e appare soprattutto come una liturgia stupida, volgare e provinciale.

Proponiamo brani di Sciascia, Le parrocchie di Regalpietra. In poche pagine l’autore ci fa capire la sua evoluzione da tiepido e incuriosito ragazzo, a istintivo insubordinato, a cosciente ed esplicito oppositore. Aiutano in questo itinerario di formazione «libri americani» e la guida di un amico più grande.

«Avrei voluto vedere Mussolini ma così, incontrarlo senza la banda che suonasse, senza stare in riga ... Un giorno si seppe che doveva parlare Mussolini, era di ottobre, vestii la divisa e andai all’adunata. Capii che c’era la guerra sentendo una donna piangere. Ero contento.»
«Per tutto l’anno a scuola non andai mai il sabato, c’era l’obbligo della divisa, e a me la divisa dava fastidio, mi faceva sentire ridicolo. Eravamo in tre a far forca ogni sabato, e il sabato c’era cultura militare. Sicché il seniore della milizia che questa materia insegnava ci vide per la prima volta agli esami, voleva farcela pagare...»
«Siamo stati nei Guf fino alla fine, ad approfittare di conferenze e convegni per dire quel che pensavamo, e forse tanta gente ci avrà guardato con sospetto. Questa è la dittatura: velenoso sospetto, trama di umani tradimenti e inganni.»
Le pagine di Calvino (da L’entrata in guerra) rievocano le esperienze con una più sofferta e minuziosa analisi psicologica. Nel settembre 1940 le truppe italiane invadono la Costa Azzurra e occupano Mentone. Il liceale diciassettenne, alle notizie degli insensati vandalismi compiuti sui beni dei cittadini, si trova accomunato coi suoi genitori nel giudizio: «... non sapevamo trarne altra morale se non quest’una: che al soldato di conquista ogni terra è nemica, anche la sua».

Con spietata autoanalisi l’autore prosegue:
«Alcune di queste notizie, certe volte, mi ripiombavano in collere solitarie, in contorte smanie senza sfogo. Per guarirne ricorrevo, con la duttilità d’inclinazioni dei giovani, al cinismo: uscivo, incontravo gli amici fidati, ero tranquillo, limpido, ghignante: – Dì, la sai l’ultima? – e le cose che in segreto m’erano parse tormentose diventavano battute di dialogo, bravate paradossali, da dirsi strizzando l’occhio».

Anche a proposito delle divise Calvino esprime la sua ripulsa, lui che deve partecipare a una visita a Mentone con una squadra della GIL vedendo «la strafottenza» di certi gerarchi e la passività dei camerati si presenta in questi termini:

«... forse per la mia goffaggine nel vestire la divisa, per il mio subirla, per la mia già predestinata appartenenza all’umanità che subisce le divise e non a quella che se ne fa strumento d’autorità o di pompa, io mi sentivo mosso dal moralismo, sempre un po’ invidioso, dei combattenti regolari contro gli imboscati e i bulli».

Il peso di questa condizione oppressiva si manifesta al colmo, quando, di notte, in camerata, il suo disagio si fa totale, e, pur senza prospettive, sembra raggiungere una prima presa di coscienza.

«Io, tra il pensiero dei miei compagni saccheggiatori e l’irritazione per quel baccano, continuavo a rigirarmi tra le ispide coperte militari. A quel tempo, un’acrimonia aristocratica improntava molti dei miei pensieri; e aristocratico era il modo in cui consideravo e avversavo le cose del fascismo. Quella notte per me il fascismo, la guerra, e la volgarità dei miei camerati erano tutt’uno, e tutto coinvolgevo in un medesimo disgusto, e a tutto sentivo di dover soggiacere senza via di scampo.»