Matrimonio/Nozze

Introduzione
Come è stato osservato da molti moderni, e già in antico da Aristotele, il greco non possiede un termine preciso per indicare l’unione dell’uomo e della donna in una famiglia legalmente riconosciuta: il termine che meglio corrisponde al nostro «matrimonio», gámos, con tutti i suoi affini e derivati, è per molti aspetti troppo ampio e generico. Un discorso analogo si può fare per il latino matrimonium, che propriamente indica soltanto la condizione legale della matrona romana; ugualmente sfuggenti a un’esatta corrispondenza con i loro esiti italiani sono i termini nubere («sposare», detto di donna: derivato da nubes «velo», ha dato l’italiano «nozze» attraverso il sostantivo nuptiae), maritare (metafora vegetale applicabile tanto all’uomo quanto alla donna), mulier (in lat. «donna», da cui l’italiano «moglie»).

Le differenze semantiche sono in questo caso spie di profonde differenze culturali, e il vasto dominio cronologico e geografico rappresentato dalle civiltà greca e latina impone approcci diversificati per le singole realtà storiche: risulta perciò impossibile parlare di «matrimonio greco» o «matrimonio romano» senza operare distinzioni ulteriori.

Il matrimonio nei poemi omerici
Omero offre numerosi esempi di unioni matrimoniali (Priamo ed Ecuba, Ettore e Andromaca, Odisseo e Penelope, Alcinoo e Arete sono le più notevoli), non sempre improntate al principio monogamico che pare dominante tanto in Grecia quanto a Roma (pare sfuggirvi, ad esempio, Priamo), e non sempre fra loro coerenti: segno probabile della realtà storica stratificata che si riflette nell’Iliade e nell’Odissea.

In ogni caso, la ricerca antropologica ha evidenziato la presenza, nel mondo dell’aristocrazia eroica rappresentato dai poemi omerici, di un modello cosiddetto ‘a case separate’: esso prevede sempre la mobilità di uno dei due coniugi (che viene incluso nella casa dell’altro) e un corrispondente processo di ‘deriva patrimoniale’ (cioè uno spostamento di beni immobili) che coinvolge le case dei due coniugi. Quest’ultimo processo è variabile e non sempre facile a determinarsi; da una parte è il modello rappresentato dalla coppia Odisseo/Penelope: il pretendente, in genere in gara con altri secondo regole che possono determinare autentiche sfide di massa (valga il caso di Elena), offre al padre o al tutore legale della sposa i suoi hédna («doni»), corrispondenti verosimilmente a capi di bestiame; la donna è in questo caso il coniuge mobile: il padre o il tutore legale la affida al marito, che la includerà nella sua casa insieme a un ricco corredo di dôra («doni», ma in questo caso corrispondenti per lo più a oggetti preziosi e beni di lusso). Dall’altra parte, è il modello rappresentato dal matrimonio con Nausicaa che Alcinoo prospetta a Odisseo: in questo caso il coniuge mobile è il marito, che il padre della sposa incorpora nella propria casa; oltre alla donna, il coniuge mobile riceve un certo numero di dôra equivalenti a beni immobili: egli è in questo modo dispensato dall’offerta degli hédna, ma rinuncia al primato della propria casa (cioè a quella che gli antropologi chiamano ‘residenza patrivirilocale’); è un matrimonio di questo tipo quello che Iobate, re di Licia, propone a Bellerofonte; e tale è verosimilmente il matrimonio che Creonte offre a Giasone.

In base al primo dei due modelli nuziali (noto con il nome di ‘matrimonio da nuora’), la moglie è a tutti gli effetti una proprietà del marito; in base al secondo (il cosiddetto ‘matrimonio da genero’) probabilmente no; legalmente variabile è poi lo statuto dei figli: all’interno del matrimonio da genero, per esempio, non necessariamente essi avranno un immediato accesso all’eredità del nonno.

Non del tutto coerenti risultano, in questa linea, i comportamenti di Penelope e Telemaco dinanzi alla questione posta dall’eventuale nuovo matrimonio della donna a causa del mancato ritorno del coniuge: l’Odissea sembra talvolta sottolineare l’autonomia di Penelope (o del suo casato), mentre altrove ella risulta sottoposta all’autorità del figlio (quasi legittimo tutore, in assenza di Odisseo).

È in ogni caso evidente che il matrimonio omerico comporta sempre un’alleanza (all’occorrenza anche militare) fra case regali: in questo esso è parallelo all’istituto dell’ospitalità. Stabile è la connessione fra matrimonio e patrimonio (destinato a circolare in un senso o nell’altro, se non in entrambi) e apparentemente prioritario rispetto a ogni esigenza di libera scelta o rispondenza sentimentale. Non perciò Omero è avaro di rappresentazioni assai efficaci e fortunate del rapporto affettuoso che lega moglie e marito: si ricordino almeno i casi di Odisseo e Penelope nell’Odissea, o di Ettore e Andromaca nel VI libro dell’Iliade.


Il matrimonio greco in età post-omerica

È stato osservato che a paragone del mondo omerico, e ancor più del mondo ellenistico, il periodo che va dalla nascita della polis (VIII-VII secolo a.C.) al suo sostanziale tramonto entro l’impero cosmopolita costituito da Alessandro Magno (fine del IV a.C.), risulta proporzionalmente il più povero di testimonianze relative alla vita matrimoniale e familiare in genere.

Il fenomeno è stato persuasivamente spiegato con la priorità assunta dalla strutture politiche e comunitarie della città, a discapito di legami fra ‘case separate’ (com’è tipico in Omero) o di concezioni più intimistiche dei rapporti familiari (come sarà tipico dell’ellenismo). L’evoluzione delle poleis greche, in termini di modelli matrimoniali, è alquanto disomogenea; ma costanti restano due fattori: l’assegnazione della sposa da parte del padre e la connessa ‘deriva patrimoniale’. Il coniuge mobile risulta in genera la sposa, ma i beni che l’accompagnano cessano per lo più di divenire proprietà del marito: essi, destinati ai figli, continuano ad appartenere alla moglie o più precisamente alla sua casa. Viene meno altresì l’inclusione del coniuge mobile nella casa del coniuge immobile: se nei poemi omerici gli sposi risultano tecnicamente dei ‘parenti’ (cioè dei consanguinei), nella polis classica essi sono – come oggi – degli affini.

Il caso meglio noto risulta in ogni caso quello di Atene, che più di altre città si è discostata dal passato omerico. Secondo le regole valide nella città attica (ma non solo) è sempre il padre della sposa che «dà» la donna al marito. Tale ‘dono’ è sempre preceduto da un ‘contratto di matrimonio’ (l’engúe), per lo più orale, ma alla presenza di testimoni e conforme a una procedura fermamente ritualizzata. Secondo la formula più volte ricordata dal commediografo Menandro (per esempio Samia, 726 s.), il matrimonio era esplicitamente destinato «alla procreazione di figli legittimi». Il contratto fra due cittadini (lo sposo e il padre della sposa) rende infatti cittadini a loro volta i figli nati dall’unione. Il contratto fissa altresì la dote (próix) che doveva accompagnare la donna, senza divenire mai proprietà del marito, che comunque poteva disporne a proprio piacimento (pur dovendo fornire una garanzia, magari in termini di ipoteca sui suoi stessi beni); il valore della dote era assai variabile (le cifre fornite dalle nostre fonti vanno dalle 1000 alle 12.000 dracme), ma corrispondeva in genere a beni mobili (denaro, rendite, ecc.).

Il ruolo di kúrios della donna (ovvero di suo ‘tutore legale’) passava in questo modo dal padre al marito: un passaggio facilitato in genere dalla marcata differenza di età fra i due sposi (già Esiodo consiglia che l’uomo si sposi a trent’anni, la donna intorno ai quindici). Il contratto di matrimonio poteva trovare un’improvvisa risoluzione (morte del marito, divorzio): risulta allora evidente che i beni della sposa continuano ad appartenere alla sua casa di provenienza, alla quale fanno ritorno; ma se vi sono figli, essi ne rimangono i legittimi eredi alla morte della madre (perciò la legge ateniese prestava particolare attenzione al matrimonio senza eredi maschi, regolato dall’istituto dell’epiclerato: l’eventuale figlia epíkleros, cioè «ereditiera», era obbligata a sposarsi con un parente della linea paterna, secondo norme assai dettagliate e precise).

Lo spiccato ‘economicismo’ che caratterizza il matrimonio ateniese classico ha talora suscitato scandalo nei moderni, ed è certo da mettere in relazione con le particolari forme della condizione femminile in Atene e altrove. Celebri lamentele di donne sottoposte al mercimonio nuziale sono già in Sofocle (Trachinie, 144-150; fr. 583 Radt) e in Euripide (Medea, 230-251), mentre risulta improntato a una praticità aliena da ogni sentimento il discorso che Senofonte (nell’Economico) fa rivolgere dal ricco Iscomaco alla sua giovane moglie. Non va però dimenticato che la nostra documentazione è spesso limitata al piano tecnico-giuridico (non meno astratto o ‘asettico’ ai giorni nostri che in Grecia), mentre alquanto deficitaria risulta la rappresentazione di autentici ‘interni’ familiari. In ogni caso, il principale apporto dell’età ellenistica agli istituti matrimoniali – al di là di una più dettagliata codificazione dei contratti di matrimonio, che diverranno peraltro documenti scritti: il più antico in nostro possesso risale al 311 a.C. – è spesso riconosciuto nel maggior rilievo che vengono assumendo sentimenti di affettuosità coniugale e culto dell’intimità familiare: probabile ‘contraccolpo’ del cosmopolitismo ellenistico e della sua nuova razionalità amministrativa, con il conseguente venir meno del senso d’appartenenza politica (quello della città classica) che era esplicato innanzitutto sul piano civico e comunitario. È da dire però che un’autentica celebrazione dell’unione matrimoniale e del suo valore affettivo, secondo accenti affini alla sensibilità moderna, dovrà attendere l’età imperiale romana, e in particolare i mutamenti sociali e ideologici occorsi fra I e II secolo d.C. (quando si assiste, secondo l’espressione di uno storico contemporaneo, a una sistematica «coniugalizzazione dell’amore» [Foucault], poi ampiamente estesa e approfondita dalla riflessione cristiana).

Il matrimonio romano
Anch’esso molto stratificato dal punto di vista cronologico, il matrimonio romano conosce diversi istituti e codificazioni giuridiche. L’età media per i maschi era stabilita intorno ai 25 anni (ma spesso ci si spingeva sino ai 35), mentre le femmine avevano in genere una decina d’anni in meno rispetto al marito: l’età legale era in ogni caso 14 anni per i maschi e 12 per le femmine; talvolta una ragazza poteva essere trasferita in casa del marito (deducta in domum) prima dei 12 anni, al cui compimento l’unione si sarebbe trasformata in matrimonio legittimo.

In età arcaica la moglie si trovava tecnicamente in loco filiae («nella posizione giuridica di figlia») rispetto al marito (se questi era sui iuris, ovvero legalmente autonomo) o al suocero (se il marito era alieni iuris, ovvero non ancora emancipato da un punto di vista legale). Era questo il cosiddetto matrimonio cum manu (manus indica il potere che, nella relazione marito-moglie, corrisponde alla patria potestas nella relazione fra ascendente maschio e discendenti), sancito attraverso i due riti della confarreatio (il più antico, pressoché in disuso in età repubblicana) e della coemptio (letteralmente «acquisto», in quanto alla moglie veniva applicato il rito della mancipatio, lo stesso utilizzato per sancire l’acquisto di beni come la terra, gli schiavi e gli animali da tiro: si percepisce qui la concezione strettamente ‘patrimoniale’ del più antico matrimonio romano).

Ma il matrimonio cum manu poteva realizzarsi – come l’acquisto di qualsiasi altro bene – tramite l’usus (la nostra «usucapione» dei beni): dopo un anno di convivenza, la donna diventava a tutti gli effetti proprietà del marito. In ogni caso il matrimonio si configurava come un autentico contratto fra patres familias: una figlia poteva essere promessa in sposa sin da tenerissima età, tramite il rito degli sponsalia (la «promessa di matrimonio», cui rimanda il verbo spondeo, da cui il nostro «sposo/-a»). Il parere del pater familias era giuridicamente indispensabile perché un matrimonio avesse luogo: almeno sino al II secolo a.C., egli aveva altresì il potere di far sciogliere un matrimonio già contratto.

A partire dalla fine del II secolo a.C. si diffonde però l’uso del matrimonio sine manu, cioè senza un effettivo diritto acquisito dal marito sulla moglie: esso era fondato sulla cosiddetta affectio maritalis, cioè sulla semplice volontà, da parte dei coniugi, di contrarre matrimonio. Affectio non significa però «affetto» o «amore»: significa piuttosto volontà effettiva di essere marito e moglie, volontà che può consistere semplicemente in un consenso passivo (cioè nell’assenza di un esplicito dissenso alle decisioni del pater familias). La convivenza accompagnata da affectio maritalis era perciò sufficiente a costituire un matrimonio legittimo. Tale mutamento va probabilmente messo in relazione con la particolare posizione della donna in quanto ereditiera: la filia familias, a Roma, poteva ereditare parte del patrimonio al pari del filius familias. La donna ne era proprietaria titolare, e tuttavia, in quanto donna, non poteva compiere atti giuridicamente rilevanti senza il consenso di un tutore legale (per lo più, se non il pater familias, il parente più stretto in linea maschile). Con il matrimonio sine manu, dunque, il tutore manteneva il sostanziale controllo del patrimonio della donna: ecco il fondamento di tale matrimonio ‘libero e consensuale’.

Relativamente semplice, in età romana, come e più che presso i Greci, il divorzio: perlopiù esso si limitava ad una notificazione (orale o scritta) del venir meno dell’affectio maritalis. Con tale semplice dichiarazione il coniuge si trovava giuridicamente sciolto dal vincolo matrimoniale; anche se l’uso, a tutti gli effetti, riduceva al minimo il ricorso a tale mezzo. Una marcata svolta rigoristica alla legislazione matrimoniale romana diedero comunque le leggi sulla famiglia emanate durante il principato di Augusto, pur con effetti sulla prassi che molti storici giudicano alquanto limitati.

Riti matrimoniali greci e romani
Per tutto l’arco della grecità, come poi spesso in età romana, la celebrazione del matrimonio è affidata a riti estremamente formalizzati, che non di rado lasciano tracce vistose sui riti ancor oggi praticati nelle società occidentali. Preceduto spesso, per la donna, da pratiche comunitarie di cui danno testimonianza, relativamente all’età arcaica, le composizioni di Saffo e di Alcmane, in Atene il matrimonio si celebrava prevalentemente nei mesi invernali («Gamelione», da gámos «matrimonio», è il mese corrispondente grosso modo al nostro gennaio).

Esso comprendeva una cerimonia in forma privata, con il concorso di ospiti appartenenti al parentado e agli amici (biglietti di inviti matrimoniali ci sono puntualmente restituiti dalla documentazione papiracea, almeno per il periodo ellenistico). Posto sotto la tutela delle più importanti divinità coniugali – Zeus, Era, Afrodite, ma anche la vergine Artemide – alla quale l’imminente sposa sacrificava nel giorno precedente le nozze, esso si concretizzava in un banchetto con annesso sacrificio, da tenersi nella casa del padre della sposa. La donna vi partecipava coperta da un velo, dopo aver compiuto rituali abluzioni. Entrambi gli sposi erano affiancati da figure con funzioni di accompagnamento (la numphéutria per lei, il párochos per lui). Durante il pasto – il cui protocollo prevedeva la divisione di maschi e femmine – non mancavano i tradizionali dolci di sesamo e miele, considerati simbolo e augurio di fecondità. Al termine di esso, aveva luogo il rito dell’anakaluptérion, il sollevamento del velo della sposa, che ne sanciva il ruolo di donna maritata.

I due nuovi coniugi venivano accompagnati alla loro casa (ovviamente quella dell’uomo) da un corteo che poteva assumere varie forme, ma che era sempre alimentato da canti nuziali (imenei ed epitalàmi). Gli sposi non venivano lasciati soli nemmeno al momento della loro entrata nella stanza nuziale (talamo): a sorvegliare quest’ultima rimaneva infatti un amico del marito, mentre il resto degli invitati intonava, fuori dalla casa, nuovi e ancor più festosi canti nuziali. Il giorno successivo, agli sposi venivano consegnati i doni nuziali – e probabilmente la dote – da parte della famiglia della sposa.

Altrettanto elaborata la cerimonia nuziale romana, se si esclude la semplice offerta di una focaccia di farro a Giove Capitolino, che costituiva la procedura caratteristica dell’arcaica confarreatio. Preliminare al matrimonio vero e proprio era il rito del fidanzamento (gli sponsalia), durante il quale il futuro sposo consegnava alla sua promessa un anello (antenato delle nostre fedi nuziali) e i rappresentanti legali dei due fidanzati solennizzavano con un banchetto i termini del contratto stipulato dinanzi a testimoni. Alla cerimonia di nozze partecipavano i familiari di entrambi gli sposi: essa poteva aver luogo in un tempio o nella casa del padre della sposa. Quest’ultima, incoronata di mirto e fiori d’arancio, vestiva una tunica candida e un tradizionale scialle dal colore di croco. Apposto il sigillo al contratto di matrimonio, e sentito il parere dell’augure che ispeziona le viscere di una vittima sacrificata all’uopo, toccava alla sposa pronunciare la formula rituale («ubi tu Gaius, ego Gaia») con cui ella garantiva la totale unanimità dei suoi intenti rispetto a quelli del marito. Al rito seguiva un banchetto e quindi un corteo matrimoniale (affine a quello in uso presso i Greci) sino alla casa degli sposi. Era tradizione che la sposa venisse portata in braccio oltre la soglia, non dal marito, ma da uno o più amici. A questo punto lo sposo le offriva simbolicamente acqua e fuoco, significando con ciò l’avvenuta integrazione nella casa.

[Federico Condello]