Omero
(gr. Hómeros, lat. Homerus)

Nome e fama
Gli antichi riconoscevano in Omero il primo e il più grande dei poeti greci, benché taluni credessero in ancor più antichi cantori (Orfeo, Museo, Lino, Esiodo). Il suo nome era variamente spiegato (le etimologie più diffuse lo connettevano all’espressione ho mè horôn «il cieco», o al dialettale hómeros «ostaggio», o al verbo homereîn «incontrarsi», «riunirsi»: forse un’allusione alle grandi feste panelleniche in cui i canti omerici venivano recitati dagli aedi) ed è citato per la prima volta in Callìno (ma la testimonianza è dubbia), Senòfane e Eraclito; ad esso si allude probabilmente già nel v. 173 dell’Inno ad Apollo, datato all’ultimo ventennio del VI secolo a.C.

La datazione variava dal IX al VII secolo a.C. (Erodoto, per esempio, collocava Omero intorno all’850 a.C.). Molte località si contendevano i suoi natali, e in particolare Chio, Smirne, Colofòne, ma anche Argo, Atene, Itaca, Pilo, Cuma. La vita di Omero fu oggetto di svariate e fantasiose ricostruzioni sin dal VI secolo a.C., con l’opera biografica di Teàgene di Reggio (che diede inizio peraltro a quella linea di interpretazione allegorica che avrà enorme successo dopo Platone, e specie con gli stoici), ma probabilmente con gli stessi aedi riuniti in consorterie professionali (la più celebre, ma non l’unica, è quella degli Omèridi di Chio). I manoscritti medievali registrano così un considerevole numero di bíoi («biografie») omerici, i più illustri dei quali sono quelli falsamente attribuiti a Erodoto e Plutarco; della stessa tradizione biografica fa parte il cosiddetto Certame di Omero e di Esiodo, il racconto di un’immaginaria competizione poetica che avrebbe visto opposti i due massimi cantori dell’epica greca: nella sua redazione attuale il Certame risale al II secolo d.C., ma è opinione comune che il suo nucleo più antico rimonti al sofista Alcidamante (IV a.C.). L’idea oggi dominante è che tali biografia dipendano, più o meno direttamente, dalla tradizione rapsodica antica, e che quindi il materiale in esse confluito sia un segno non dappoco della fortuna goduta da Omero in età arcaica e tardo-arcaica. Checché si voglia pensare sulla reale esistenza del poeta (gli studiosi sono da sempre divisi), è un fatto che la fama di Omero come massima autorità della poesia antica risulta documentata a partire dal VI secolo a.C., quando egli (o piuttosto la tradizione rapsodica che a lui si richiamava) s’impose sul piano panellenico, probabilmente inglobando non poche tradizioni locali (non è un caso che le biografie omeriche inscenino leggendari incontri fra il poeta e molti altri rapsodi arcaici di rilevanza regionale), da intendersi come costituzione ‘ideale’ (se non addirittura ‘redazionale’) di un corpus omerico legittimato dalla sua risonanza panellenica, e tuttavia risalente – attraverso un’ininterrotta tradizionale orale – alle fasi più remote (micenee) della storia ellenica.

Per tutta l’antichità Omero - come poeta di Iliade e Odissea - costituì il ‘‘testo base’’ della scuola e dell’educazione. Esso fu però ignoto al Medioevo occidentale e venne riscoperto, con altri classici greci, dall’Umanesimo (prima edizione a stampa: Firenze 1488). Osteggiato per i suoi presunti caratteri ingenui e primitivistici dall’erudizione rinascimentale e sei-settecentesca, esso dovette attendere il Romanticismo per una nuova e definitiva riscoperta che lo canonizzò come il primo autore della letteratura occidentale.

Opere omeriche
Si suole distinguere fra opere omeriche e opere pseudo-omeriche, come d’uso per ogni altra tradizione afferente a un grande autore dell’antichità classica; ma certamente il caso di Omero merita una trattazione (e una terminologia) a parte, poiché se si ammette che il nome del poeta sia stato innanzitutto la grande autorità di riferimento per una tradizione aedica di carattere orale, è difficile distinguere fra opere che avrebbero in comune, appunto, tale rinvio a un immaginario (o storico) antenato, senza previe distinzioni – almeno in età arcaica – fra opere genuine e opere spurie. È un fatto però che la moderna limitazione dell’Omero ‘autentico’ all’Iliade e all’Odissea si fonda su una tradizione che risale alla tarda età classica, quando con autori come Erodoto – e poi soprattutto con Aristotele e con i filologi alessandrini – prende forma quell’eliminazione dei poemi ‘pseudo-omerici’ che non mancò di far sentire i suoi effetti sulla stessa tradizione manoscritta: sicché il ritiro della paternità omerica a opere sino ad allora considerate genuine, ne causò – attraverso i secoli – la sostanziale scomparsa. Tale riduzione consiste essenzialmente nella separazione fra Iliade e Odissea da una lato, e il cosiddetto Ciclo omerico dall’altro. L’immagine del ‘ciclo’ rimanda a un’ideale ‘unità’ narrativa che comprenda tutta la vicenda della guerra contro Troia: dai più remoti antefatti mitici (addirittura la nascita di Elena) sino ai diversi destini degli eroi che ritornano in patria dopo la presa della città.

Il Ciclo (detto omerico, ma più precisamente ‘troiano’ per distinguerlo da cicli afferenti ad altre tradizioni mitiche, per esempio quelle relative a Tebe) comprendeva i seguenti poemi: i Canti ciprii (narravano gli antefatti dell’Iliade: dalla decisione di Zeus di risolvere la ‘crisi demografica’ con una guerra internazionale, sino alla partenza degli eroi achei comandati da Agamennone e al primo periodo della guerra di Troia), l’Etiopide (narrava il séguito dell’Iliade, dall’arrivo delle Amazzoni in aiuto di Priamo, sino all’uccisione del re degli Etiopi Mèmnone da parte di Achille e alla morte di quest’ultimo per mano di Paride), la Piccola Iliade (narravano l’ultima parte della guerra di Troia, sino all’inganno del cavallo ideato da Odisseo: ma il contenuto del poema resta dubbio e discusso), la Distruzione di Ilio (narrava la fine della guerra e l’incendio di Troia: forse era parte della Piccola Iliade), i cosiddetti Nóstoi («Ritorni»: un poema o una serie di poemetti), dedicati al viaggio che ricondusse gli eroi achei da Troia alle rispettive patrie (il più famoso è naturalmente l’Odissea), la Telegonia (che narrava le vicende di Odisseo dopo l’Odissea, sino alla sua morte per mano di Telègono, figlio avuto da Circe).

Tali poemi godono di una caratteristica ‘doppia attribuzione’: accanto al nome di Omero, si fanno i nomi di diversi poeti locali (Stasìno, Arctìno, Lesche e altri); questi ultimi possono essere stati ‘inventati’ dopo che la paternità omerica venne ritirata ai poemi, ma appare altrettanto se non più probabile che l’attribuzione a tali poeti sia più antica dell’attribuzione a Omero, che ne avrebbe in séguito – una volta impostosi come autorità panellenica – ‘inglobato’ l’opera per necessità inerenti al confronto (certo tutt’altro che incruento) fra diverse consorterie di aedi. Per noi perduti, i poemi del Ciclo possono essere ricostruiti – al di là dei rari frammenti – tramite il riassunto che nel V secolo d.C. ne fece Proclo nella sua Crestomazia (una sorta di ‘manuale letterario’, a sua volta conservato solo in estratti di età bizantina).

Oltre ai poemi del Ciclo, erano attribuito a Omero sino all’età classica un poema eroicomico (il Margite: che esso sia di Omero mostra di credere ancora Aristotele, che però è interessato a far discendere dal grande poeta i due ‘macrogeneri’ letterari – il ‘comico’ e il ‘serio’ – da cui sarebbero nate, rispettivamente, commedia e tragedia), mentre è probabilmente della tarda età ellenistica (se non addirittura posteriore) quella parodia nota con il nome Batracomiomachia («Guerra delle rane e dei topi») che le nostre fonti tramandano sotto il nome di Omero. Al poeta veniva inoltre ascritta la paternità degli inni esametrici noti appunto come Inni omerici, e sopravvissuti in una raccolta di età tarda che comprende altresì brani che non hanno nulla a che vedere con l’età arcaica: ma almeno i maggiori di essi (l’Inno a Dioniso, l’Inno a Demetra, l’Inno ad Apollo, l’Inno ad Ermes e l’Inno ad Afrodite), devono risalire a un periodo a ridosso del VI-V secolo a.C.

Cenni sulla ‘questione omerica’
Con il nome di ‘questione omerica’ si intende il lungo dibattito che a partire dalla fine del Settecento (ma con notevoli anticipazioni fra XVII e XVIII secolo, e addirittura nella filologia ellenistica) mise in questione la realtà storica del poeta Omero e il processo di formazione dei poemi a lui attribuiti (in particolare l’Iliade e l’Odissea); tale dibattito si considera spesso concluso (con un’aporia o, più ottimisticamente, con un ‘superamento’ delle domande di partenza) grazie all’avvento della teoria oralistica negli anni ’30 del Novecento. In realtà, con uguale verosimiglianza, esso potrebbe considerarsi ancora in corso.

Iniziatore della ‘questione omerica’ è usualmente considerato F.A. Wolf, i cui Prolegomena ad Homerum (1795) tentano di ricostruire per la prima volta (benché oggi si tenda a evidenziare i legami di Wolf con la ricerca precedente) una storia del testo omerico nell’antichità, insistendo sul carattere orale della trasmissione testuale arcaica e attribuendo grande importanza a quella redazione scritta dei poemi omerici che già le fonti antiche attribuiscono a Pisìstrato (quindi alla seconda metà del VI secolo a.C.: realtà storica, rilevanza e modalità di tale ‘redazione pisistratea’ costituiscono uno dei più costanti problemi dell’omeristica contemporanea); Wolf giunge così a ipotizzare per l’Iliade una formazione per canti relativamente autonomi, appartenenti a diverse tradizioni rapsodiche, che solo in séguito sarebbero stati unificati a formare un solo poema attribuito a Omero. L’ipotesi (la cosiddetta Liedertheorie, «teoria dei canti») sarà ampiamente sviluppata nel secolo successivo (soprattutto da K. Lachmann) e nel Novecento (con G. Jachmann); altri, in quella che è l’epoca d’oro della filologia cosiddetta analitica, il XIX secolo, preferiranno pensare a una formazione che partendo da un nucleo originario (la cosiddetta Ur-Ilias, l’Iliade ‘originaria’) ha progressivamente fornito un ‘allargamento’ del poema, sino a giungere alla redazione attuale (principale esponente di tale prospettiva è il grande filologo G. Hermann). Simile alla teoria dei canti separati è la cosiddetta teoria dei «kleine Epen» («Piccoli poemi»), che sarebbero stati artificiosamente ‘ricuciti’ (si pensi per esempio ai primi quattro libri dell’Odissea, che formano una quasi autonoma Telemachia o poema di Telemaco) per formare due grandi poemi dall’apparenza unitaria. È evidente che le diverse teorie ‘analitiche’ (cioè miranti alla ‘scomposizione’ dei poemi omerici) tendono a porre in crisi la fede nell’esistenza di un grande poeta storico di nome Omero. Nella stessa linea si erano del resto già messi autori come l’abate d’Aubignac (le cui Conjectures sull’Iliade risalgono al 1664, ma vennero edite solo nel 1715) e il nostro G.B. Vico (nella Scienza Nuova, 1730, e particolarmente nel terzo libro), sostenendo l’inesistenza di Omero e battendo – con vari accenti – sulla natura collettiva dei poemi a lui attribuiti.

Un indubbio punto di svolta della questione omerica è segnato, fra gli anni ‘30 e ‘40 del XX secolo, da un doppio movimento di studi. Da una parte, M. Parry (e con lui A.B. Lord) compie quelle fondamentali ricerche sull’epica orale serbo-croata che daranno inizio alla cosiddetta oral formulaic theory, la teoria che intende spiegare i poemi omerici analizzando i metodi della mnemotecnica (le tecniche che consendono al cantore la memorizzazione di lunghi brani e le conseguenze della loro applicazione sulla struttura testuale) e della performance aedica, fondata sulla ricorrenza e sulla combinazione di ‘formule’ (segmenti metrico-testuali relativamente invariabili, sulla cui esatta definizione, però, si discute tuttora) e di motivi tematici, nonché sulla straordinaria capacità di improvvisare oralmente nuove composizioni all’atto stesso dell’esecuzione (la cosiddetta composition-in-performance), capacità che non risulta inconciliabile con l’opera di un singolo cantore.

Dall’altra parte, studi come quelli di W. Schadewaldt, K. Reinhardt e più tardi J.T. Kakridis (con la cosiddetta corrente ‘neoanalitica’) hanno evidenziato, al di là delle incongruenze e delle contraddizioni rintracciate dagli ‘analitici’, l’architettura coesa e unitaria dei due poemi omerici. L’idea di un Omero storico (visto spesso come un aedo di genio, posto al termine di una lunga tradizione orale) è così ritornata in auge. Oggi più nessuno discute il fatto che Iliade e Odissea nascano dalla stratificazione di epoche e tradizioni aediche diverse, né che gran parte di tali tradizioni abbia avuto natura eminentemente orale. L’affinarsi dei metodi oralistici (con la progressiva definizione del concetto di formula e con le analisi formulari estese a pressoché tutto il corpus della poesia greca arcaica), e la formulazione di nuove ipotesi sul fondamentale passaggio da una tradizione orale a una tradizione scritta (indagine che deve contare innanzitutto sul comparativismo), hanno in certo senso preso il posto della tradizionale disputa sull’esistenza di Omero.

La lingua dei poemi omerici
Quella di Omero non è una ‘lingua’ nel senso tradizionale del termine: non vi è luogo né tempo in cui qualcuno, per le esigenze quotidiane, si sia espresso nella lingua parlata dal narratore e dai personaggi dei poemi omerici. Che essa costituisca una Kunstsprache (una «lingua artistica», cioè ‘artificiale’), e che come tale abbia goduto di una fortuna secolare, non è messo in discussione da alcuno. Il vero oggetto del contendere critico risiede nell’esatta definizione storica della lingua omerica, della sua ‘origine’ e dei suoi componenti.

Se tale lingua si fonda sulla possibilità di ‘contaminare’ una fondamentale base ionica con elementi provenienti da altri dialetti (in particolare, ma non solo, l’eolico), gli omeristi sono impegnati nella difficile impresa di comprendere in quale forma e attraverso quali vie si sia formata tale originale mistione, soprattutto a partire dal ruolo che il greco di età micenea può o deve aver giocato nelle fasi più antiche della tradizione aedica. Partendo dal presupposto che alcuni elementi eolici della lingua omerica non possono essere considerati (per ragioni metriche) posteriori trasformazioni di originari elementi ionici, vi è chi ritiene che a una fase ‘micenea’ sia seguita una fase ‘eolica’ (causata dal soggiorno in Tessaglia degli aedi sopravvissuti alla fine dell’età micenea) e quindi una progressiva ‘ionizzazione’ avvenuta sulle coste dell’Anatolia; altri sottolineano la natura già probabilmente composita, dal punto di vista dialettale, della ‘fase eolica’ o addirittura della ‘fase micenea’; altri ancora ritengono che una lingua d’arte essenzialmente ionica sia stata fin dall’origine influenzata da una lingua d’arte ‘continentale’ originariamente indipendente.

I risultati della ricerca sono dunque tutt’altro che definitivi, per quanto essa debba continuare a partire da alcuni dati che si possono considerare certi o quasi certi: il carattere originario di alcuni elementi ‘eolici’ (la maggior parte di tali dialettismi non sono ‘traducibili’ in ionico senza infrangere la metrica, mentre pare vero il contrario per la maggior parte degli elementi ionici; almeno che non si tratti, come qualcuno ha ipotizzato, di elementi ionici ‘antichi’); l’assenza di elementi dorici (che sembra indicare una data di formazione originaria anteriore all’arrivo dei Dori in Grecia); il carattere decisamente recenziore (spesso probabilmente posteriore alla stessa ‘redazione scritta’) degli atticismi, del resto rari.

[Federico Condello]