Famiglia

Premessa
I più antichi intrecci della letteratura greca parrebbero, agli occhi dei contemporanei, storie di famiglie in crisi. Quella di Elena e Menelao (Iliade), quella di Odisseo e Penelope (Odissea), nonché la famiglia divina che fra incesti e simbolici parricidi (Urano, Crono, Zeus) ispira la Teogonia di Esiodo (ma anche l’altro poema dell’aedo beota, Le opere, trae spunto da una lite di Esiodo con il fratello Perse). Non solo: i miti del Ciclo epico ripresi dalle trame della tragedia attica sono interamente dedicati alla crisi dei géne di primo piano nell’immaginario dell’aristocrazia greca (gli Atridi di Argo, i Priamidi di Troia, i Labdacidi di Tebe), al punto che alcuni hanno potuto interpretare la tragedia come incontro-scontro fra la logica gentilizia dell’aristocrazia e la nuova logica giuridica della democrazia di Atene. Anche le interpretazioni psicologiche della tragedia attica hanno qui il loro punto d’appoggio: l’esegesi freudiana del mito di Edipo, che ha fatto scuola e talvolta fornito il modello per un’interpretazione globale della tragedia, si fonda sull’intima dissociazione che regge il modello familiare ‘trinitario’ (l’odio/amore filiale per le figure dei genitori, spinto sino agli estremi dell’incesto e del parricidio).

Eppure la Grecia non ci presenta un solo modello di famiglia. Le differenze fra luogo e luogo, epoca ed epoca, sono spesso molto marcate. Questo a prescindere da quelle prospettive antropologiche che hanno sostenuto con verosimiglianza una sostanziale continuità della struttura familiare occidentale, dalla Grecia ai giorni nostri.

Antefatti indoeuropei e lessico della famiglia
Come è stato più volte dimostrato, l’indoeuropeo ha un modo peculiare di trattare i termini di parentela: essi appaiono spesso come ‘duplicati’ in un termine di natura affettiva e in un altro di natura legale e astratta; è in genere quest’ultimo che rivela la più grande vitalità nel dominio greco-latino; segno, per qualche verso, di una conflittualità fra famiglia e società che appare iscritta ab origine nel pensiero occidentale.

La Grecia storica, nel suo complesso, non avrà esitazioni nel privilegiare la società rispetto alla famiglia. Quest’ultima, del resto, non ha un nome preciso che la designi: si parla in genere di «casa» (oikía) o di «stirpe» (génos), termini per noi troppo ristretti o troppo ampi; e già Aristotele osservava che il greco non ha un modo per indicare l’istituzione del «matrimonio».

La situazione omerica
Come per molti altri temi, è indispensabile tener conto della profonda stratificazione cronologica (e dei conseguenti, frequenti anacronismi) che l’attività degli aedi ha depositato sull’opera di Omero. In ogni caso, il cosiddetto sistema‘a case separate’ sembra dominare tanto la società achea, quanto quella di Troia. Gli oîkoi vi funzionano come cellule autarchiche, in cui pare talvolta difficile distinguere ‘società’ e ‘famiglia’. Per questo le ‘case’ hanno estensioni così vaste, comprendendo le miriadi di figli e figlie, i cugini, i cognati, i generi; questo almeno per il versante troiano, su cui forse gli aedi arcaizzano in maniera più marcata.

Il versante acheo è in parte diverso, specie nell’Odissea, dove la triade formata da Odisseo, Penelope e Telemaco pare restituire una famiglia per noi alquanto ‘familiare’, un convincente antesignano della moderna famiglia nucleare (non a caso Telemaco verrà volentieri assunto, in epoca contemporanea, a emblema dell’adolescente e dei suoi dilemmi). Non solo: se per l’Iliade ha scarso senso distinguere fra pubblico e privato – una distinzione fondamentale per la nostra idea di famiglia – non è così per l’Odissea: tutto il finale del poema dimostra come i guai del basiléus non siano più i guai di tutta la comunità, e la strage dei Proci rischia di costare cara a Odisseo, perché un gesto del principe non è ipso facto un affare di Stato. Non a caso il poema si chiude sull’intervento di Atena, che impone i «patti» (hórkia: letteralmente «giuramenti») e ristabilisce l’accordo fra le leggi della società e le leggi della famiglia regale: si tratta di quell’Atena che un intervento analogo compirà a favore di Oreste, secondo il mito raccolto da Eschilo nelle Eumenidi.

Alcune evoluzioni
A prescindere dai problemi di cronologia relativa che coinvolgono Omero ed Esiodo, è certo che quest'ultimo presenta un diverso ambiente e un diverso orizzonte sociologico: non la corte aristocratica, ma la comunità agricola arcaica, o, se vogliamo, la polis al suo stadio germinale. Esiodo sembra dare notizie contraddittorie, consigliando da una parte la famiglia allargata e patriarcale (con molti figli, cioè molte braccia atte al lavoro), dall’altra la famiglia ristretta, quasi nucleare (un solo figlio: meno bocche da sfamare). Riflesso forse di una condizione in grande movimento (se non di una stratificazione testuale composita); comunque Esiodo, accanto ai figli, ben conosce i due elementi portanti della ‘casa’ greca: cioè la donna e lo schiavo (o il bue, per i più poveri). Se ne ricorderà Aristotele, all’inizio della Politica, dove il filosofo spiegherà come la famiglia si realizzi lungo gli assi di tre relazioni costitutive: uomo/donna, padre/figlio, padrone/schiavo.

È facile vedere come il primo elemento delle tre opposizioni sia sempre lo stesso: il cittadino maschio adulto, rapportato alle tre forme della sua alterità (la donna, il figlio, il servo). E con Aristotele è eretta a sistema la teoria della famiglia come microsocietà naturale: elemento primitivo che comporrà prima il villaggio (la comunità ristretta), poi la polis (lo Stato). Eppure, questa logica ‘genetica’ (prima le parti, poi il tutto) è ribaltata da Aristotele in una logica ‘sincronica’ o ‘sistematica’: una volta dato il Tutto con le sue leggi, le parti sono ad esso subordinate, e perdono completamente la loro priorità. La famiglia, ‘microsocietà naturale’, sarà del tutto assorbita nel più generale sistema della società. Sembra questo in effetti il suo destino durante il predominio della polis classica.

La polis classica e postclassica
Il Pericle dell’Epitafio registrato da Tucidide si vanta della divisione fra ‘pubblico’ e ‘privato’ come di una scoperta tipica della democrazia ateniese: una scoperta di portata millenaria. D’altra parte, se la formazione della famiglia è affidata al matrimonio e dunque all’accordo fra due privati cittadini (escludendo per lo più la donna), la polis se ne fa carico sia amministrando il diritto di cittadinanza, sia includendo ogni nuovo nato in un complesso reticolo di riti, soglie iniziatiche e doveri civici che determineranno il suo statuto sociale e la sua esistenza (dal rito delle Anfidromie, che costituisce il riconoscimento del figlio, siglato dall’imposizione del nome, alla sua presentazione alla fratrìa, sino alla sua partecipazione a tutte le cerimonie, religiose o laiche, che scandiscono la sua inclusione nella città e fanno di lui un individuo soggetto a una sorta di ‘iniziazione continua’).

Ancor più marcata in senso comunitario la situazione di Sparta, dove nessun uomo sposato passa la vita in famiglia, benché il matrimonio sia obbligatorio per legge (a scopo riproduttivo): la sua principale sfera d’appartenenza sarà sempre la comunità pubblica e aristocratica dei pari. Il quadro è complessivamente chiaro: la famiglia è integralmente attraversata dai riti e dalle leggi della comunità; l’obiettivo della paidéia (il «processo educativo») è sempre l’esterno (per i maschi, ovviamente); formare una famiglia non è che un modo per garantire la sopravvivenza della società. Ma la famiglia è anche in potenziale contrasto con la società, il conflitto è sempre in agguato: ed ecco l’attacco di Platone (preceduto da Democrito e Antifonte almeno per ciò che riguarda la contestazione degli istituti matrimoniali) tanto all’idea della proprietà privata, quanto all’idea di una formazione affidata ai miti oscurantistici delle mamme e delle nutrici; per il filosofo, è la società che deve farsi carico della paidéia: il pubblico deve trionfare definitivamente sul privato.

In ogni caso, la letteratura di età classica e postclassica ci offre le più disparate immagini della vita familiare: dall’atteggiamento paternalistico ed utilitaristico di Iscòmaco – ritratto dell’Ateniese ‘ideale’ nell’Economico di Senofonte – ai battibecchi fra marito e moglie, sull’educazione dei figli, nelle Nuvole di Aristofane; sino al fantasma della ginecocrazia nella Lisistrata e nelle Donne all’assemblea dello stesso Aristofane: una sorta di indagine, ovviamente maschilistica, sul punto di vista delle donne, che potrebbe riassumersi nelle opposizioni privato vs pubblico, pace vs guerra, famiglia ed economia domestica vs società ed economia politica.

Ma solo con la dissoluzione della polis classica, con l’avvento dell’Ellenismo e del primo grande progetto di ‘globalizzazione’ occidentale, l'àmbito della famiglia e del privato acquista – quasi per una sorta di grande contraccolpo storico – un ruolo nettamente prioritario. Ciò che prima era per lo più rito – una forma di appartenenza almeno tanto religiosa quanto giuridica alla compagine della polis – diviene ora legge: l’età ellenistica, come poi l’età romana, ci offre una grande efflorescenza di termini legali afferenti al campo dell’unione matrimoniale e del rapporto familiare. Ma questa cellula della grande società cosmopolita, che è ormai la famiglia, comincia anche per questo a vivere di vita propria: la famiglia ha ormai un’autonomia riconosciuta dallo Stato – è quindi ancora il pubblico che fonda il privato – ma si apre il campo alle dinamiche intimistiche e ‘familiari’ finalmente registrate dalla letteratura: le crisi dei rapporti genitori-figli, le grandi peripezie amorose, l’idea di una famiglia ristretta che sia in qualche modo antitetica rispetto ai codici della vita sociale (significative, da questo punto di vista, le trame del commediografo Menandro).

Naturalmente, molti dei caratteri della famiglia classica permangono immutati e alcuni tratti strutturali sono tipici di tutta la famiglia antica: per esempio l’età delle spose, il rischio di mortalità infantile e di mortalità perinatale delle madri, il relativo lassismo del rapporto moglie/marito (il matrimonio antico non è quasi mai indissolubile, e costante rimane l’istituto del concubinato), una tecnologia artigianale di controllo delle nascite (a parte forme ‘naturali’ di aborto e contraccezione, l’infanticidio e l’esposizione dei neonati), la sostanziale divisione dei compiti fra marito e moglie, la patrilinearità (discendenza in linea paterna/maschile); e poi alcuni tratti ideologici che sono rimasti pressoché immutati per una durata secolare: basti citare l’elogio della continenza (specie femminile), la distinzione fra unioni legittime e unioni illegittime, la finalità riproduttiva del matrimonio.

La famiglia romana
La famiglia romana ha da sempre costituito un punto di riferimento importante per l’elaborazione delle categorie socio-politiche occidentali; anche ben oltre il suo tramonto, la sopravvivenza del diritto romano ha garantito la permanenza di un modello autorevole (ad esempio, per i teorici moderni della sovranità assoluta) e marcatamente autoritario.

Gli studi più recenti, tuttavia, hanno contribuito a confutare alcuni degli stereotipi che hanno a lungo condizionato gli studi sulla famiglia romana, e in particolare: 1) l’idea di un’evoluzione lineare dalle grandi famiglie allargate patriarcali a piccole famiglie nucleari; 2) l’idea di un influsso determinante del cristianesimo nel causare il collasso del modello patriarcale e nel suggerire nuovi paradigmi morali, sessuali e pedagogici, la cui durata può ritenersi estesa sino all’età contemporanea.

Lessico della famiglia romana
Familia è un termine polisemico che può riferirsi a diverse realtà: a) la proprietà patrimoniale della famiglia (un uso raro, ma probabilmente arcaico); b) l’insieme di coloro che si trovano sottoposti a un’unica patria potestas, compresa la moglie; c) l’insieme di tutti i parenti agnati (cioè di linea maschile e provenienti dalla stessa casa); d) l’insieme di tutti i componenti di una casa o di una villa, compresi i servi; e) l’insieme di tutti coloro che sono imparentati in linea maschile con un antenato comune: in questo caso familia è sinonimo di gens.

In nessun caso familia corrisponde al nostro «famiglia» (padre, madre, figli, in canonica trinità). Gli scrittori del periodo classico preferiscono parlare di domus, un termine che includeva genitori, figli, parenti agnati e cognati, nonché gli schiavi, il cui numero poteva ammontare a qualche centinaio nelle unità domestiche più ricche.

La patria potestas
La patria potestas è senza dubbio un elemento cardinale della famiglia romana: «non esiste quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli qual è la nostra», scrive il giurista Gaio (II d.C.). In effetti la patria potestas non cessa mai sinché il pater familias è in vita: i figli restano alieni iuris (filii familias) sino alla morte del pater familias (che non corrisponde necessariamente al proprio padre, ma al più anziano ascendente diretto maschile). Solo chi non ha ascendenti è sui iuris, soggetto di diritto a pieno titolo. Il potere del pater familias inizia alla nascita del figlio: egli può tollere (suscipere) liberos (natos) - compiere il gesto rituale di ‘sollevamento’ che ne sancisce il riconoscimento - oppure decidere di ‘esporli’, per quanto questa decisione comporti già dalle origini alcune sanzioni pecuniarie, ridotte al minimo nel caso delle femmine. Il pater familias mantiene sempre lo ius vitae ac necis, il «diritto di vita e di morte», sui propri filii familias; egli può decidere di vendere i figli come schiavi e in ogni caso mantiene la proprietà dei loro beni (la legge romana ovvierà in parte il problema creando il peculium, un capitale di cui i figli possono disporre con una certa libertà).

Va detto però che lo ius necis, per quanto formalmente mai abolito sino al IV secolo d.C., era fortemente avversato dal senso comune e nella pratica assai desueto. Gli altri effetti della patria potestas erano spesso resi inefficaci dai naturali cicli demografici romani (con un’attesa di vita media non superiore ai 30 anni): è stato calcolato che, in età tardo repubblicana, solo un quinto dei maschi adulti in età di matrimonio (fra i 25 e i 35 anni) doveva trovarsi ancora sottoposta all’autorità di un pater familias: nella stragrande maggioranza dei casi, il pater familias era probabilmente già morto. Il diritto di morte rimane sostanzialmente limitato al diritto di expositio dei neonati, che non coincide comunque con un infanticidio: nella maggior parte dei casi, i maschi sono avviati alla schiavitù, e le femmine alla prostituzione.

Ad ogni modo, appena nato il bambino è perlopiù affidato a una nutrice, come già nel mondo greco: il rapporto con i genitori era così deviato o mediato attraverso una figura che giuridicamente era proprietà del figlio. Se è lecito inferire dai pochi dati in nostro possesso, tale uso doveva determinare una singolare differenziazione fra le figure genitoriali oggetto di affetto e le figure genitoriali oggetto di timore, in quanto portatrici di autorità. Un rilievo notevole aveva ancora la patria potestas nelle decisioni e negli atti relativi alla stipula di un matrimonio.

La svolta augustea
È in età augustea che la famiglia romana riceve nuovo impulso e nuovo inquadramento sociale: l’intera ideologia augustea si fonda su un paradossale accordo di innovazione e arcaismo; le necessità imposte da una struttura sociale sempre più ampia, articolata e complessa avevano minato alle basi l’istituto della famiglia (si pensi semplicemente alla diffusa assenza dei mariti, per ragioni politiche o militari, e alla sempre più forte diffusione di uno stile di vita ispirato al luxus greco e orientale): Augusto, anche a fronte di un diffuso calo della natalità, avvia un’opera di moralizzazione degli istituti familiari, che si concretizza nelle tre leggi Iulia de maritandis ordinibus, Papia Poppaea e Iulia de adulteriis, tutte votate fra il 18 e il 9 a.C.

I maschi fra i 25 e i 60 anni e tutte le femmine fra i 20 e i 50 anni erano obbligati a contrarre matrimonio; i caelibes venivano puniti con forti limitazioni delle capacità patrimoniali (per esempio, potevano ricevere solo limitatamente eredità e legazioni patrimoniali); sorte analoga toccava agli orbi, cioè a coloro che si sposavano ma non avevano figli; una donna che avesse partorito almeno tre volte otteneva l’esenzione dal proprio tutore. Aspra la legislazione sugli adulteria, cioè su ogni relazione extraconiugale da parte della donna, indipendentemente dal suo status (coniugata, vergine o vedova). La sanzione di tali reati passava dall’àmbito della famiglia a quella dello Stato: l’adulterium diventava un vero e proprio crimen, un reato pubblico perseguibile non solo da parte dei congiunti, ma di qualsiasi cittadino presentasse denuncia. La pena era la relegatio in insulam (una forma di ‘confino’), sia per la donna, sia per l’amante. Venne ribadito, pur con alcune limitazioni, lo ius occidendi da parte del pater familias, in caso di flagranza di reato (il marito, per lo più, poteva uccidere solo l’amante e non la moglie). È probabile che la legislazione augustea non abbia ottenuto grandi risultati sul piano del costume e dell’evoluzione sociale; anche in questo caso, le pressioni provenienti dall’evoluzione della società romana si rivelano ben più forti dei tentativi di dominarne giuridicamente le tendenze.

Evoluzioni di età imperiale
Se è dato riscontare un forte cambiamento nello sviluppo degli istituti familiari romani, esso si colloca nei primi due secoli dell’Impero: una nuova etica della famiglia si va via via imponendo alla società ‘globalizzata’ (ormai estesa ben oltre il bacino del Mediterraneo) di Roma. Si è spesso ritenuto di dover imputare tale effetto all’influenza del cristianesimo, alla sua insistenza sulla parità fra uomo e donna (per esempio, Paolo, Lettera ai Galati, 3,28) e alla sua etica della ‘continenza’ sessuale. Senza negare l’incidenza della morale cristiana, è evidente che la morale pagana matura in proprio alcuni elementi fondamentali di tale nuova visione del matrimonio e della vita familiare: un diffuso elogio della continenza sessuale appartiene ai filosofi e ai medici pagani del I e del II secolo d.C., e con esso va di pari passo una forte ‘coniugalizzazione dell’amore’ (Foucault: il matrimonio è visto come la principale, se non l’unica, forma consentita alla manifestazione del desiderio) e un accorato elogio dell’affetto – razionale e giudizioso – rispetto alla passione e all’emotività amorosa. Il matrimonio comincia a corrispondere a nuove aspirazioni di sicurezza e stabilità psicologica. Su due aspetti, tuttavia, il cristianesimo influisce senza dubbio sulla moralità – se non proprio sulla giurisprudenza – romana: nel promuovere via via l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, a prescindere dalla permanenza dell’affectio maritalis (cfr. matrimonio); e nel disarticolare le tradizionali norme di trasmissione patrimoniale all’interno della famiglia: a partire dal IV secolo d.C., la Chiesa influisce fortemente sulla legislazione relativa all’ereditarietà dei patrimoni, nell’intento sostanziale di garantire la possibilità di lasciti a vantaggio della Chiesa stessa. Ciò comporta via via una disgregazione della famiglia tradizionale romana. Le ragioni della cui metamorfosi vanno però cercate nella progressiva crisi dell’aristocrazia all’interno di un Impero sempre più burocratizzato e complesso dal punto di vista sociale.

[Federico Condello]