Balbettii di una lingua
Il primato della poesia
E il fiorentino vince
Le parole







Il primato della poesia
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Ma cosa sta succedendo altrove? Nell’Italia settentrionale si sviluppa una poesia didattico-religiosa in vari dialetti: veneto (Giacomino da Verona), lombardo (Bonvesin de la Riva). In Umbria, regione legata al movimento degli ordini mendicanti, fiorisce la poesia religiosa con San Francesco (†1226) e successivamente con Iacopone da Todi (†1306). Sono esperienze interessanti ma che non hanno seguito, perché confinate ai margini del processo principale, che si sviluppa, come dice Dante, nelle tre fasi che abbiamo visto sopra e che si possono così riassumere: creazione di una lingua letteraria illustre, distinta dal dialetto corrente, da parte della scuola siciliana (Dante pensava che la lingua in cui leggeva i testi siciliani fosse quella originaria, in realtà, come sappiamo, gli scritti erano stati toscanizzati); produzione di una poesia cortese toscana in forme municipali e plebee; prosecuzione della poesia toscana in forme illustri (stilnovismo). Sta di fatto che l’azione degli stilnovisti, poiché Dante è uno di loro e poiché Petrarca a loro si ricollega, è di capitale importanza per gli sviluppi della lingua italiana, che viene già a disporre di un modello abbastanza uniforme.

Tutto questo non avviene, invece, per la prosa. Se è vero infatti che abbiamo un aumento degli scritti in volgare di carattere pratico, come registri di spese o elenchi di tassazione, a cui devono aggiungersi in Toscana cronache (ad esempio La sconfitta di Monte Aperto di un autore senese di parte ghibellina), opere di tipo enciclopedico (come La composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo, 1282), e i primi tentativi di narrativa (Il Novellino, 1280-1300), tuttavia i testi più impegnativi si scrivono in latino, o anche in francese. In questa lingua infatti Brunetto Latini compone una ricca enciclopedia, il Tesoro, e Rustichello da Pisa trascrive, ne Il Milione (1298), il racconto dei viaggi in Estremo Oriente fattogli in carcere da Marco Polo.

Un capitolo a parte è costituito dalle traduzioni dal francese e soprattutto dal latino, che contribuiscono ad arricchire il lessico e a dare al volgare una struttura sintattica più compatta. All’esigenza di usare un idioma più ricercato, specialmente in occasione di discorsi pubblici, risponde alla metà del secolo il bolognese Guido Faba, che fornisce tutta una serie di formulari modellati sull’ars dictandi (arte retorica medievale in latino). Il contributo maggiore alla prosa viene comunque ancora da Brunetto Latini, già ricordato per la sua attività in lingua d’oil, che, traducendo e commentando nella sua Rettorica parte del De inventione di Cicerone, offre, sulla base del modello latino, un esempio importante di ordine e di chiarezza comunicativa. Ma questo non basta per far arrivare la prosa ai livelli della poesia in termini di perfezione stilistica e di omogeneità.

Alla fine del secolo, dunque, Firenze si impone perché è favorita dalla sua posizione geografica, perché la sua lingua è più vicina al latino e per la possibilità di introdurre molte parole nuove (mutuate in gran parte dal latino) nel suo lessico, grazie al suo grande sviluppo culturale. In quest’epoca può dirsi compiuta, come dice Devoto, l’elaborazione, iniziatasi a partire dal secolo IX, del primo sistema fonologico fiorentino che sarà quello dell’italiano e che si può riassumere così:

a) si eliminano le parole sdrucciole in tutti i casi in cui il risultato degli scontri fonetici non sia controproducente (solidu > soldo / nitidu > netto);

b) le vocali e e o aperte in sillaba aperta dittongano almeno negli strati superiori (metit > miete);

c) le consonanti finali vengono eliminate;

d) i gruppi consonantici si assimilano in senso progressivo (dictum > detto / captivus > cattivo);

e) i gruppi di consonante + l si palatalizzano in forma blanda (clavem > chiave / plenu > pieno / flamma > fiamma / platja > piazza / medju > mezzo / hodje > oggi).

Per la morfologia ci sono fenomeni che saranno poi tipici dell’italiano, come il passaggio da–ar– a –er– nel futuro (lodarò > loderò), la sincope nelle forme averò > avrò, doverò > dovrò etc. e i costrutti senza preposizione con i nomi propri, del tipo «Piazza San Pietro» al posto di «Piazza di San Pietro», esteso però anche a forme come «il nodo Salomone» invece di «il nodo di Salomone»; restano però ancora i genitivi dei nomi propri («la figliuola Guidi» invece di «la figliola di Guido») tipici dell’uso notarile, e il possessivo enclitico («fratelmo» = «mio fratello»), tutti residui destinati a una rapida sparizione.

 
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