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L’allargamento a venticinque nella stampa italiana

L'Europa delle paure

Il primo maggio i 15 membri salgono a 25. Una data che porta con sé molti timori: immigrazione, frontiere, fondi, sviluppo. E solo il 47 per cento dei cittadini vuole l'allargamento

di G. Riva

Come sarà? Finora l'Europa a Venticinque era un'idea, un'affollata foto di gruppo con premier e capi di Stato, una montagna di dossier con grafici e dati economici. Ma dal primo maggio, via i muri metaforici e fisici. Ancora restii a cadere, però, i muri psicologici. Anzi, si alzano in misura inversamente proporzionale all'avvicinarsi della scadenza. Passata l'euforia da gigantismo, affiorano le paure. Non importa se in gran parte ingiustificate. Paure generate dalle insicurezze di chi vede insidiato il proprio benessere dall'arrivo di dieci nuovi commensali a tavola (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia).
Immigrazione, disoccupazione, perdita di aiuti economici, invasione di prodotti alimentari e non senza standard di sicurezza. Le ansie si declinano in una vasta gamma di settori. Fino a produrre una cifra di consenso mai scesa così in basso: solo il 47 per cento dei cittadini dei Quindici (ultimo sondaggio Eurobarometro) è favorevole all'allargamento. Gli italiani, tanto per esemplificare, nonostante continuino ad essere i più entusiasti (61 per cento), mettono però all'ultimo posto (31 per cento) tra le priorità dell'Unione l'accoglienza di nuovi paesi. Assai lontano da emergenze quali sono giudicate il combattere la disoccupazione (92 per cento) o l'immigrazione clandestina (85).
Lavoro Se c'è un punto qualificante perché un'Unione sia tale è la libera circolazione dei lavoratori. Ma il primo maggio non cambierà nulla. Per un periodo transitorio che va da un minimo di due a un massimo di sette anni (ogni Stato è libero di decidere la tempistica) restano in vigore le leggi attuali. Eppure in diversi paesi sono state prese delle misure cautelative. In Germania e Austria, nazioni più esposte per vicinanza geografica ai nuovi partner, si legano gli arrivi al rilascio di un permesso di lavoro. Di cui hanno mostrato, sinora, di poter fare tranquillamente senza i 30 mila polacchi che, da diversi anni, hanno invaso Berlino per offrirsi in nero. Svolgono i lavori più umili: camerieri, muratori, scaricatori e la loro paga varia tra i sei e gli otto euro l'ora. Molti fanno i pendolari e arrivano il mattino col treno delle 8,30 da Kostrzyn. Il ministro delle Finanze Hans Heichel ha sguinzagliato settemila ispettori per stanarli, ma anche quando vengono fermati, è facile per loro definirsi turisti.
La Gran Bretagna, in nome di un antico sentimento di ospitalità, aveva scelto la politica delle porte aperte finché Tony Blair, incalzato dall'opposizione dei Tories di Michael Howard, si è trovato costretto a inasprire le regole nel timore di perdere consensi. Dunque, per due anni i cittadini dell'ex patto di Varsavia dovranno iscriversi a uno speciale registro, dimostrare di essere retribuiti secondo il minimo salario garantito e non potranno chiedere benefit come la casa comunale o il sussidio di disoccupazione. E questo nonostante l'invecchiamento della popolazione determini la domanda di almeno 500 mila nuovi lavoratori, in particolare in Scozia.
Ci si attrezza per la valanga quando, semmai, si tratterà al massimo di una palla di neve. O almeno questo sostiene un altro sondaggio Eurobarometro che la Commissione europea ha divulgato con enfasi nella speranza di abbassare la febbre da immigrazione. Solo l'uno per cento della popolazione in età di lavoro dei nuovi membri, è disponibile ad abbandonare la propria casa in cerca di fortuna. In numeri assoluti fa 220 mila persone su una popolazione della Ue allargata di 455 milioni di persone. Nella maggioranza dei casi si tratta di giovani, non sposati, per un terzo studenti e nel 25 per cento dei casi con una laurea. Semmai a preoccuparsi dovrebbero essere i Paesi d'origine, per via dell'esodo di cervelli. Un solo esempio rassicurante: la Spagna soffre oggi di una minore emigrazione rispetto agli anni in cui non faceva parte dell'Unione.
Frontiere C'è una questione, invece, assai più delicata e che rende gli ex paesi del patto di Varsavia titolari di una responsabilità enorme. Gestiranno loro le frontiere esterne dell'Unione europea, toccherà a loro bloccare i flussi di immigrati clandestini. Ora sono assai lontani dall'essere pronti e la previsione è che non potranno entrare nel sistema Shengen prima di un periodo calcolato in almeno 4 anni. Durante i quali avranno, oltre al denaro, l'assistenza tecnica di esperti della vecchia Europa per dotare di terminali i confini e per connettersi con le varie banche dati della polizia centralizzata. Ai bordi delle frontiere tra ex e nuovi aderenti dovrebbero essere invece messi in funzione circa 120 punti di controllo delle merci per garantire che soprattutto i generi alimentari rispettino gli standard di sicurezza Ue.
Fondi strutturali Sono stati, e sono, un terreno di battaglia furibonda. E anche grande tema di dibattito elettorale in Spagna, prima che l'11 marzo di Madrid spazzasse via ogni altro argomento. Sia il vincitore José Luis Rodriguez Zapatero sia lo sconfitto Mariano Rajoy si erano impegnati genericamente a difendere gli interessi della Spagna che rischia di perdere tra il 25 e il 30 per cento dei fondi regionali di coesione nelle prospettive finanziarie 2007-2013 (per l'arco di tempo 2000-2006 erano 52 miliardi di euro). La Francia teme restrizioni di budget e riduzione di finanziamenti per i suoi combattivi agricoltori a favore dei colleghi polacchi. Il più preoccupato di tutti è comunque il solito Schroeder che ha avuto più volte modo di affermare: "L'ampliamento deve essere affrontato dal punto di vista economico". Dal 1994 al 1999 i cinque nuovi Länder tedeschi, cioè l'ex Germania est, hanno incassato 15 miliardi di euro di fondi regionali. Dal 1990, solo per sviluppo di infrastrutture e cultura, sono piovuti altri 2,5 miliardi di euro l'anno sugli ex fratelli separati. Mathias Platzek, premier della Spd nel Brandeburgo proclama: "Sono mezzi irrinunciabili per la nostra regione". E il ministro dell'economia Spd del Mecklenburg-Vorpommern rincara: "Se riceveremo nel futuro meno soldi da Bruxelles li chiederemo direttamente al nostro ministro Eicel". Il principio è quello per cui hanno diritto ai soldi le regioni il cui Pil è sotto il 75 per cento della media Ue. Abbassandosi la soglia per via dell'ingresso di paesi poveri, molte regioni ex assistito vengono escluse. Per quanto riguarda l'Italia sicuramente escono dal gruppo Basilicata e Sardegna, e si discute della Puglia. Restano tra le sicuramente sovvenzionabili solo Campania, Calabria e Sicilia.
Nulla è ancora definito, ma l'orientamento è quello di dividere i 336 miliardi di euro del piano 2007-2013 a metà tra le aree più deboli dei nuovi Stati e quelle ancora in difficoltà dei Quindici. In casi come quello della Basilicata ci sarebbe una scala decrescente per evitare un impatto troppo drastico. Stessa situazione per 5 regioni britanniche, 4 spagnole e 4 tedesche.
Concorrenza e mercati Ancora una volta è la Spagna la prima a temerla. L'allarme l'ha lanciato la Banca centrale avvertendo di ravvisare "alcuni elementi di rischio" nel basso costo del lavoro nei Paesi dell'Est. Questo potrebbe comportare il dirottamento di investimenti stranieri di cui, con Aznar, Madrid ha goduto anche grazie alla politica iperliberista. In più l'export spagnolo rappresenta solo 1,8 per cento del totale dei Dieci nuovi contro il 25 per cento della Germania. Che, anche geograficamente, tornerà ad essere al cuore dell'Europa e non ai suoi margini. Un rischio? Forse nel lungo tempo. Non ora se i rapporti col la Polonia, ad esempio, non sono mai stati tanto tesi. Alexander Voigt, manager della berlinese Solon, azienda di punta nel settore delle energie alternative riflette: "Entrare nel mercato dell'est per noi è rischioso in queste condizioni di burocrazia e corruzione". Si riferisce all'annuale rapporto di Transparency international dal quale risulta che Paesi baltici, Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia hanno visto aumentare vertiginosamente la corruzione negli ultimi anni. Per l'Italia le prospettive non sono negative. Può vantare una buona penetrazione dei mercati grazie alla delocalizzazione di molte aziende, soprattutto del Veneto. E nel settore bancario IntesaBci e Unicredito hanno già sferrato un'offensiva espansionistica ad Est.

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