La formazione dell'UE

L'unione economica e monetaria

La politica sociale dell'UE
Funzione e organi dell'UE
Bibliografia
Europa a venticinque
La Costituzione dei venticinque
Link



L’allargamento a venticinque nella stampa italiana

Come dare un’identità all’Unione che cresce
di G. Quagliariello, 30 Aprile 2004

Il primo maggio l’Europa dei quindici si trasformerà nell’Europa dei venticinque. E’ questo il quinto allargamento da quando il “club” dei Paesi fondatori, nel 1973, si modificò per la prima volta ed è anche facile prevedere che non sia l’ultimo: Romania e Bulgaria attendono fuori l’uscio e si pone la ben più spinosa questione della Turchia. Non ci troviamo, tuttavia, a cospetto di un allargamento come gli altri. Il numero dei Paesi coinvolti è di gran lunga superiore ai casi precedenti e la popolazione dell’Unione avrà un incremento pari a circa un terzo dell’attuale. Ma la ragione vera che caratterizza questo quinto allargamento è che esso determina l’unificazione del Continente, mettendo la parola fine alla differenza tra Europa orientale ed Europa occidentale.
L’Unione dei venticinque è una garanzia del fatto che, al suo interno, le controversie saranno regolate secondo modalità pacifiche, senza la necessità di ricorrere alle armi. Retrospettivamente, considerando quanto è accaduto nel mondo all’indomani della dissoluzione dell’impero sovietico, non può considerarsi un traguardo scontato. L’esito dell’allargamento è meno prevedibile in ambito economico. Gli ottimisti pongono l’accento sulle opportunità provenienti da paesi con tassi di crescita assai più elevati di quelli che ormai scandiscono il sonnolento sviluppo della Vecchia Europa; i pessimisti, di contro, evidenziano le difficoltà di governare squilibri causati da Pil nazionali assai disomogenei e sottolineano che l’allargamento porterà ad un abbassamento nella media del prodotto interno dell’Unione del 16%.
Si può, comunque, affermare che la nuova Europa viene a costituire una comunità di “sicurezza” ed una zona di libero scambio, all’interno della quale sarà possibile stringere accordi di cooperazione a “geometria variabile”, determinati dagli interessi di volta in volta sollecitati. Questo risultato non va né sottovalutato, né contrabbandato per qualcosa che non è.
Chi ritiene che l’odierna aggregazione di venticinque Stati possa incarnare l’ideale dell’Europa dall’Atlantico agli Urali vagheggiato dal Generale de Gaulle è destinato ad essere smentito. Il Continente ha messo insieme le sue membra disperse. Forse, con l’auspicabile approvazione del trattato costituzionale, riuscirà presto a forgiarsi un vestito. Ma non per questo si può ritenere che esso possegga un’anima. L’Europa sta vivendo una crisi d’identità, destinata ad esasperarsi a causa dell’allargamento. I dati delle inchieste pubblicate in questi giorni dal Messaggero sono inequivoci: la gran parte dei cittadini, e in particolare quelli più giovani, non conoscono nemmeno la geografia della nuova Unione; per non parlare dei problemi linguistici, etnici e demografici. Ma anche passando a considerare l’ambito delle classi dirigenti, questa diagnosi non si modifica.
Basterebbe valutare, a tal proposito, come è stato affrontato in sede di Convenzione il problema delle radici giudaico-cristiane: non come l’occasione per un confronto necessario con la propria storia e la propria tradizione, al fine di verificare ciò che, ancora vivo, può fungere da mastice. Ma come un fastidioso problema diplomatico sorto con il Vaticano, al quale trovare una qualche via di uscita.
Se dalle radici più profonde ci si sposta, poi, verso il tempo presente, la situazione non muta. Il tema dei rapporti transatlantici, ad esempio, è destinato ad indebolire ulteriormente la traballante identità europea. Esso, infatti, divide già le opinioni pubbliche della Vecchia Europa, tendenzialmente sempre più ostili nei confronti degli Usa. E giunge anche a riproporre una frattura laddove, con l’allargamento, si sarebbe voluto unificare. I Paesi dell’ex area d’influenza sovietica, infatti, per comprensibili motivi storici, a tutto sono disposti tranne che a rinunziare alla garanzia di sicurezza e libertà che proviene loro dal rapporto con l’altra sponda dell’Oceano.
Anche per questo l’Europa dei venticinque sarà diversa da quella dei sei o dei quindici: non solo perché più “larga” ma soprattutto perché in possesso di un’identità meno chiara. Non certo per questo il processo d’integrazione dovrà venir meno. Ma “integrarsi” non vuol dire contare di più nell’equilibrio internazionale. Né il vecchio asse franco-tedesco né tantomeno un ipotetico direttorio a tre saranno sufficienti a dare coerenza e forza egemonica all’Europa unificata, fino a quando essa non sarà stata in grado di sciogliere il nodo gordiano della sua identità sempre più incerta.

Tutti gli articoli