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L’allargamento a venticinque nella stampa italiana

EUROPA: Il falso allarme per l’invasione da Est

20 Aprile 2004

L'unione europea si appresta a varare il più grande allargamento della sua storia senza che nessuno, tra chi ha in mano le leve della politica economica, ne parli. Nemmeno il governo gli dedica una sola parola pur alla soglia del voto per il Parlamento europeo. Peccato, perché il «big-push», la scossa all’economia, di cui tanto si fantastica di questi giorni potrebbe venire proprio dall'allargamento a Est dell'Unione. Quando l'integrazione fra 15 Paesi non riesce più a generare crescita, aprire l'Unione a Paesi che crescono a tassi del 4-5% all'anno, in cui risiedono quasi 100 milioni di persone, vuol dire darsi una bella scossa. Significa allargare i mercati e poter raggiungere quelle economie di scala che sono il motore della crescita. Il progresso tecnologico tipicamente premia chi raggiunge dimensioni più grandi. Per poter beneficiare appieno delle nuove tecnologie è perciò importante operare in un mercato più vasto, come quello dell'Unione a 25 (presto 27) Paesi. Del resto, il fattore principale di crescita del Vecchio Continente negli Anni '90 è stata proprio la costruzione del Mercato unico, un processo di allargamento progressivo dei mercati nazionali. Non sono, per la verità, solo gli italiani ad essere disinformati su quanto sta per accadere. A tre settimane dall'ingresso nell'Unione di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria, sono ancora molti (più del 50% secondo l'ultimo sondaggio Eurobarometro) i cittadini che non conoscono i nomi dei nuovi Stati membri. Quando li si menziona uno ad uno, prevalgono spesso le opinioni contrarie all'allargamento. L'unico Paese che i cittadini di tutti i Paesi attualmente membri della Ue sarebbero disposti ad accogliere a braccia aperte, fin da subito, è la Svizzera. Ci ricorda il formaggio e le mucche, secondo i sondaggi, perché sono proprio queste le associazioni dominanti richiamate alle menti degli intervistati dal nome «Svizzera». Ma non sono tanto questi rassicuranti e bucolici ricordi a fare gradire ai nostri concittadini la Svizzera, quanto il fatto che si tratta di un Paese con un reddito pro capite nettamente superiore a quello della media Ue. Mentre, come ricordava Barbara Spinelli su questo giornale, i nuovi cittadini dell'Unione vengono visti come i «parenti poveri» e sono, obiettivamente più poveri di noi, a giudicare dal loro reddito pro capite. Anche l'aspetto maggiormente temuto dell'allargamento, l'immigrazione dai nuovi Stati membri, servirà a stimolare la crescita, senza creare particolari tensioni sociali. Le nostre stime prevedono circa 30.000 arrivi in Italia nei primi anni (in caso di piena liberalizzazione dei flussi di lavoratori dai nuovi Paesi dell'Unione) e si tratterà di lavoratori relativamente ben istruiti e culturalmente a noi affini, quindi più facilmente in grado di integrarsi. Purtroppo stiamo facendo di tutto per non beneficiare di questa opportunità perché, senza aprire un confronto pubblico sul tema, il nostro governo ha deciso che nei prossimi due anni i lavoratori dei nuovi Stati membri avranno lo stesso trattamento degli extracomunitari. Stupisce, soprattutto, il silenzio di Confindustria su questa scelta miope, quando le imprese del Nord hanno formulato domande di lavoratori immigratori quattro volte superiori agli ingressi garantiti del decreto flussi e in città come Torino ci sono dieci domande per ogni ingresso regolare. Ci stiamo condannando, in questo modo, a importare lavoro in nero di immigrati, anziché sfruttare l'allargamento per compensare due problemi strutturali del nostro sistema produttivo: il dualismo Nord-Sud (gli immigrati dai nuovi Paesi arriveranno e lavoreranno nelle regioni più forti del Paese) e la scarsa propensione alla mobilità degli italiani. Ma non tutte le preoccupazioni da allargamento sono infondate. Vi sono anche dei costi legati all'eterogeneità dei nuovi Paesi. Sono, soprattutto, costi politici per l'Unione. Un'Europa più grande rischia di diventare meno unita, meno integrata, a meno che si riesca al più presto a ridisegnare le attribuzioni di competenze fra i diversi livelli di governo, comunitario, nazionale e locale. Altrimenti l'allargamento può diventare sinonimo di riduzione del grado di integrazione politica. L'allargamento richiede infatti revisioni profonde dei compiti assegnati alle istituzioni comunitarie, anziché un semplice congelamento del bilancio dell'Unione, come quello deciso sin qui dal Consiglio (al vertice di Copenhagen). Si tratta di riformare radicalmente la politica agricola comune, rivedere le politiche strutturali, mettere in piedi un sistema di finanziamento di questi interventi trasparente e basato sulle differenze di reddito pro capite, dunque in grado di ridistribuire non solo nel dare, ma anche nel ricevere. Si tratta, ancora, di adottare una politica dell'immigrazione comune, in grado di controllare i flussi migratori da quelli che saranno i nuovi confini dell'Unione e di permettere che esista effettivamente un mercato del lavoro unico da Praga e Lisbona, da Tallinn a La Valletta.
Speriamo che le elezioni europee diventino un'occasione per discutere di questi temi. Saranno, inutile farsi illusioni, principalmente incentrate su questioni di politica interna, dato che il Parlamento europeo mantiene un ruolo ancora tutto sommato marginale nell'architettura istituzionale dell'Europa. Ma senza correttivi il nostro Paese è destinato a diventare il secondo contribuente netto al bilancio comunitario. Dunque è davvero importante, anche per ragioni strettamente nazionali, saper pensare in grande, ad una Europa a 25, presto a 27 Paesi e con più di 100 milioni di nuovi cittadini.

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