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L’allargamento a venticinque nella stampa italiana

Europa

24 Aprile 2004

Quindici anni d’attesa per essere ammessi nell’Unione possono sembrare decisamente troppi, per i popoli d’Europa centrale e orientale che il primo maggio entreranno a far parte della Comunità nata dopo la fine della seconda guerra mondiale al di qua della cortina di ferro. In questi quindici anni molti ardori iniziali si sono spenti, molte attese si sono guastate, a Est, convertendosi in amarezze. Si sono accumulati i dubbi, i risentimenti, le incomprensioni, come s’è visto agli esordi della guerra in Iraq. E’ opinione diffusa che le due parti d’Europa che stanno per riunificarsi hanno poche visioni in comune, e che l’Unione a 25 (e fra pochi anni a 27) sia fatalmente condannata a dividersi su questioni essenziali per la democrazia come la pace e la guerra, la rassegnazione o la resistenza alle dittature nel mondo, la minore o maggiore disponibilità a difendere con le armi, e in stretto contatto con l’odierno unilateralismo americano, la propria civiltà e quella dell'occidente. Secondo questa opinione, l’Europa non sarà mai capace di fare storia e di darsi i mezzi di un’unione politica e militare se non affronta sin d’ora la questione che riassumerebbe tutte le altre: se non affronta il rapporto con gli Stati Uniti, e non fa di questo rapporto - sempre più stretto ma anche sempre più complicato, da quando è cominciata l’aggressione contro l’occidente del terrorismo globale - il perno stesso della propria esistenza. Questa visione è tuttavia non solo parziale, ma antiquata. L’America non è più il Grande Federatore del nostro continente, come lo fu nel dopoguerra e in gran parte della guerra fredda, e attribuirle ancor oggi questo ruolo di guida e di tutela non ha molti rapporti con quello che la Comunità è realmente divenuta in quarantasette di storia, e con quello che l’amministrazione Usa sta facendo nel tentativo non già di veder unita l’Europa, ma di approfondirne le divisioni. In questo lasso di tempo, l’Unione ha acquisito un patrimonio comune (in linguaggio tecnico si chiama: acquis communautaire) che non è solo economico e monetario ma anche politico e di costume: è fatto di comuni leggi di convivenza, di tolleranza, di rispetto delle minoranze etniche e religiose, è impregnato nei momenti migliori d’un forte senso della propria fallibilità storica, ed è questo comune patrimonio che gli europei centrali e orientali hanno dovuto far proprio, prima d’entrare nell_Unione. Da questo punto di vista i quindici anni d’attesa non sono passati invano: sono stati anni di negoziati fondamentali e molto dettagliati, contrassegnati da un progressivo e costante sforzo di adattamento fatto dalle società uscite dall’esperienza comunista. Sono stati anni di rivoluzionamento delle loro legislazioni, delle loro culture politiche, e - come vedremo - di non poche illusioni nate con la fine del comunismo. Giorno dopo giorno, si son formate società civili che erano latitanti in epoca comunista, perché represse e dunque addestrate all’irresponsabilità. La preparazione delle classi dirigenti orientali è stata faticosa, in molti campi non è ancora del tutto compiuta - lo stesso avvenne d’altronde per altri paesi candidati come Spagna o Portogallo o Grecia, in passato - e forse c’era bisogno di questa lenta maturazione perché l'impresa potesse, oggi, aver luogo e riuscire. Un esempio di tale adattamento è il rapporto di queste società con le minoranze etniche, e in particolar modo con le comunità Rom: questa popolazione nomade proveniente dall’India è assai numerosa in Europa centrale e orientale, e il più delle volte i Rom sono trattati alla stregua di cittadini di seconda classe o addirittura di non-cittadini. Dopo il genocidio nazista degli zingari (fra 200.000 e 500.000 morti) sono circa 12 milioni i Rom sparsi nel mondo, e circa 4 milioni e mezzo di essi vivono nelle nazioni europee che prima appartenevano all’impero sovietico: secondo un rapporto pubblicato nel maggio 2002 dalla Commissione europea sono fra 700 e 800.000 in Bulgaria, fra 250 e 300.000 in Repubblica ceca, fra 480 e 520.000 in Slovacchia, fra 550 e 600.000 in Ungheria, fra 1,8 e 2,5 milioni in Romania, fra 50 e 60.000 in Polonia, fra 6.500 e 10.000 in Slovenia, e in Lettonia sono 8.200. Con il passare degli anni molte speranze in Europa orientale si sono appannate, a proposito dell’imminente unificazione del continente, ma non le speranze di questa comunità che continua a scommettere sulle capacità, che l'Unione ha dimostrato nel dopoguerra a cominciare dai rapporti un tempo fratricidi fra tedeschi e francesi, di integrare e civilizzare i costumi e i vizi degli Stati-nazione. In quest’ultimo decennio sono state le istituzioni d'Europa, infatti, a occuparsi concretamente delle condizioni il più delle volte miserabili in cui vivono i Rom a Est: condizioni che sono andate aggravandosi, dopo la liberazione dal comunismo. E’ stato l’occhio vigile dell’Unione e dell’esecutivo Prodi a concentrare l’attenzione sulle ripetute violazioni dei diritti dell’uomo che avvenivano nei paesi candidati, e a impostare un negoziato che metteva la questione Rom fra i primi punti bisognosi d’esser risolti prima dell’adesione.
Il rapporto della Commissione europea sulle comunità Rom d’Europa Centrale è molto chiaro in materia, e non nasconde l’inquietudine suscitata a Bruxelles dal maltrattamento che le comunità gitane hanno subito in questi quindici anni. Per migliorare le loro condizioni sono state esercitate pressioni incalzanti sui governi candidati e sono stati finanziati progetti di integrazione, soprattutto nel campo dell’educazione. Trattare con equanimità questa popolazione che nella seconda guerra mondiale fu martoriata e in parte distrutta è diventata così una delle condizioni non irrilevanti, per l’adesione, e i paesi dell’Est hanno dovuto mostrare non solo la loro capacità finanziaria ed economica di entrare in Europa, ma anche la loro attitudine culturale, mentale, a tollerare il diverso, a favorire il pluralismo etnico oltre che il pluralismo delle idee. Accanto agli europei orientali anche i Rom entrano dunque in Europa, a pieno titolo. Il loro modo di entrarvi è molto significativo e servirà forse da esempio per la seconda ondata di allargamento, che si estenderà alle nazioni dell’ex Jugoslavia e concernerà anche in quel caso un gran numero di minoranze etniche maltrattate o espulse (L'Institute for War and Peace Reporting di Londra valuta che 120.000 Rom sarebbero fuggiti dal Kosovo in occasione della guerra Nato contro Milosevic). Solo in un insieme sovranazionale infatti, che tenga a bada il potere sovrano esercitato in eccesso dai vecchi e nuovi Stati-nazione, si aprono spazi per le comunità etniche che di questi eccessi hanno più volte patito lungo i secoli, e che sono state represse ogni volta che le sovranità nazionali si facevano più assolute e accentratrici. Qualsiasi minoranza vive meglio in strutture dove i poteri sovrani e le stesse identità si distribuiscono e si esercitano su vari livelli: locali, nazionali, e sovranazionali. Basti ricordare il destino degli ebrei d’Europa: è in strutture statuali di tipo imperiale che essi hanno vissuto meglio (come fu il caso in Austria-Ungheria) e il massimo di emarginazione ha avuto luogo durante la prima guerra mondiale e dopo, quando le identità nazionali degenerarono in nazionalismi etnici di carattere estremista. A prima vista può apparire paradossale, quel che è successo dopo la Liberazione dell’Ottantanove nell’altra parte d’Europa: i suoi popoli recuperarono infatti la sovranità che per decenni avevano dovuto sacrificare, assieme alle libertà individuali e ai diritti dell’uomo, ma questa liberazione non aprì la strada a una maggiore tolleranza verso le minoranze. I rapporti anzi si inasprirono in maniera grave, con le minoranze, e l’Ottantanove stesso si tramutò in qualcosa d’ambiguo. Era stato una data importante per l’emancipazione politica del Centro e dell’Est europeo, ma quest’indipendenza ritrovata si accompagnò, e spesso s’accompagna ancor oggi, a una grande illusione: l’illusione che assieme alla libertà le nazioni ritrovavano tutte le prerogative che erano state loro tolte negli anni della guerra fredda e del patto di Varsavia, e che gli Stati-nazione sarebbero tornati a essere pienamente autonomi e indipendenti, come lo erano stati in passato e, in particolare, nel periodo fra le due guerre. Era come se le nazioni dell’Oriente europeo entrassero nel futuro non procedendo come avevano fatto gli europei occidentali dopo il ‘45, ma retrocedendo nel tempo e ricadendo nelle vecchie mentalità nazional-isolazioniste del passato: mentalità che nel secolo scorso avevano dato vita ai mostri del razzismo. Il dialogo diretto che l’America di Bush ha instaurato negli ultimi anni con quest’Europa chiamata inopinatamente Nuova non ha aiutato ad avvicinare le due parti fin qui divise del continente, e ha rallentato l’adattamento reciproco. La xenofobia e il razzismo tornarono dunque a far capolino, dopo la caduta del comunismo e del suo impero. Questo fu vero soprattutto nelle nazioni dove le popolazioni Rom erano più numerose. In Cecoslovacchia alcuni municipi innalzarono veri e propri muri attorno agli accampamenti Rom - accadde nel 1999 presso le cittadine di Usti nad Labem, di Riokyakany, di Vsetin - e l'offensiva xenofoba rientrò sotto la duplice pressione dell’Europa e del Presidente Vaclav Havel. «Questo muro ha soprattutto un significato simbolico», così ammonì l’ex dissidente divenuto capo dello Stato. «Ogni giorno che passa sembra divenire più alto, e presto ci impedirà di vedere dietro di esso l’Europa». La discriminazione era cominciata già nel 1993, quando la Cecoslovacchia si frantumò e slovacchi e cechi decisero di separarsi. I Rom furono le vittime di quello che fu chiamato, per distinguerlo dalle secessioni bellicose in ex Jugoslavia, il divorzio di velluto. Per loro non fu affatto di velluto: nei territori slovacchi erano considerati cechi, e in quelli cechi erano espulsi o svillaneggiati come slovacchi. In ambedue le nazioni furono per lungo tempo privati d’ogni cittadinanza e d’ogni diritto. Ma anche altrove i Rom pagarono prezzi alti per la liberazione dell’Est, del Centro, e del Sud-est europei. Le loro condizioni in Kosovo divennero catastrofiche, come abbiamo visto: trattati come collaborazionisti di Milosevic dai musulmani albanesi e dall’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck), fuggirono a precipizio dalle zone di battaglia. In Slovacchia rappresentano il 10 per cento della popolazione e soffrono pesanti discriminazioni: il più delle volte, a causa della scarsa padronanza della lingua, i bambini delle comunità finiscono forzatamente in scuole speciali destinate ai ritardati mentali. In regioni come Kosice (100.000 zingari Rom su un totale di 760.000 abitanti) quasi tutti gli istituti scolastici per ritardati mentali sono frequentati da Rom. Nel gennaio dell’anno scorso, due organizzazioni non governative pubblicarono un rapporto secondo cui 110 donne gitane erano state sterilizzate contro la loro volontà, negli anni successivi all’89. Esattamente come era accaduto durante il genocidio degli zingari ai tempi di Hitler. L’Europa unita promette di allentare la tenaglia dei nazionalismi che storicamente ha stritolato i Rom, allo stesso modo in cui ha stritolato gli ebrei d’Europa. Proprio perché non riproduce sul piano sovranazionale uno Stato-nazione di tipo classico, l’Europa è l’unica speranza per queste minoranze. Come ha detto Claudio Magris in una bella intervista a Paolo Rumiz, la paura che tanti hanno di un’Unione suscettibile di livellare e distruggere le diversità, a Est e a Ovest, è nella sostanza sbagliata: «Io sono fermamente convinto che l'Europa protegga le culture e le minoranze in modo sicuramente migliore di quanto non facciano gli stati nazione». E ancora: «Le varietà non sono mai fiorite tanto come sotto Roma e l'Austria-Ungheria. Il conte Leopold von Sacher Masoch racconta il magnifico senso di sicurezza che provava il contadino ruteno, sempre vessato dalla piccola nobiltà polacca, al momento di passare accanto all'aquila bicipite. Ecco, spero che l' Europa Unita sia proprio così, decentrata e liberale» (La Repubblica, 12-3-2004). Sono i grandi sistemi imperiali a salvaguardare le minoranze e le loro autonomie - sempre che questi sistemi non siano imprigionanti oltre che espansivi, e che il più forte non continui a mangiare il piccolo come avviene nelle nazioni. L’Europa ha l’opportunità di divenire questo grande insieme, più simile a un impero che ai vecchi, e così spesso micidiali, Stati-nazione. Più simile all’Europa immaginata da padri fondatori come Jean Monnet, secondo cui è la consapevolezza storica dei passati orrori a svolgere il ruolo di Grande Federatore del continente in cui viviamo.

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