Bembo contro tutti
La lingua della scienza
Le parole





Bembo contro tutti
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Tutto il XVI secolo fu occupato invece da quella che fu chiamata «la questione della lingua». Il dibattito, che vide entrare in campo un ingente numero di letterati – alcuni dei quali mostrarono anche una notevole sensibilità per i problemi linguistici – doveva concludersi solo all’inizio del secolo successivo. È del 1612, infatti, la pubblicazione del Vocabolario della Crusca, che sanciva la vittoria del fiorentino usato dagli scrittori nel Trecento.

Lo scopo della discussione fu quello di indicare una lingua comune per l’Italia con particolare riguardo a quella che avrebbero dovuto usare gli scrittori, benché venisse affrontato anche il problema della lingua parlata. Il motivo di questa necessità è al tempo stesso letterario e politico: in un’epoca in cui, dopo la discesa di Carlo VIII (1494), gli Stati italiani si avviano a perdere la loro libertà, la letteratura, che aveva fornito nel Medioevo così grandi prove a Firenze, sembra essere l’unico punto di riferimento per un’identità nazionale che ora è in grave pericolo. Era necessario quindi dare una sistemazione sicura alla lingua attraverso grammatiche e lessici. Da questa esigenza pratica scaturì una riflessione teorica.

La personalità di maggiore spicco per spessore culturale è il veneziano Pietro Bembo, uomo di corte e filologo, editore di Dante e Petrarca. Nelle Prose della volgar lingua (1525), dopo aver riconosciuto, ricollegandosi al dibattito umanistico, la filiazione del volgare dal latino e il suo imbastardimento a causa delle invasioni barbariche, Bembo sostenne però che questa lingua progressivamente si era nobilitata grazie all’azione degli scrittori, soprattutto toscani, e che con Dante, Petrarca e Boccaccio si era raggiunto il livello dei classici antichi. Quindi, dovendo fornire dei modelli letterari che siano facilmente accessibili, Bembo indica Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa, escludendo sostanzialmente Dante, reo di aver fatto troppo spesso uso di parole popolari. La lingua si impara leggendo questi autori, mentre bisogna evitare qualunque contatto con il fiorentino parlato, che rischia di alterare la perfezione di quello scritto.

L’altra teoria, che viene sostenuta da molti letterati tra cui Baldassar Castiglione (nel Cortegiano, 1528), è quella dell’affermarsi della lingua cortigiana, nobile e raffinata, che si parla nelle corti, dove si incontrano uomini provenienti dai luoghi e dalle esperienze più diverse. Alcuni identificavano questa corte con quella di Roma, dove i papi medicei (Leone X, 1513-21, e Clemente VII, 1523-34) avevano assicurato prestigio al modello fiorentino, anche favorendo la presenza di compatrioti. Così il romanesco stava perdendo i tratti che lo accomunavano ai dialetti meridionali e si avvicinava sempre di più alla koinè (lingua comune) ideale. Secondo i sostenitori di questa teoria, fermo restando il fatto incontrovertibile che la base del volgare è il toscano, non ci si poteva limitare ad assumere come modello gli scrittori trecenteschi né il fiorentino moderno, ma bisognava accettare anche i contributi di altre regioni.

L’avversario più deciso del Bembo fu il vicentino Giangiorgio Trissino, che nel 1529 scrisse un dialogo, Il castellano, in cui sosteneva che la lingua ‘italiana’ non poteva essere il fiorentino ma era formata da parole comuni a ogni parte d’Italia. Egli dichiarava espressamente di richiamarsi alle idee esposte da Dante nel De vulgari eloquentia, che aveva provveduto a divulgare in traduzione. Una lingua siffatta non poteva definirsi né fiorentina né toscana, ma soltanto italiana.

La proposta del Bembo finì per imporsi anche per la sua praticabilità: chiunque poteva comprarsi le Rime e il Decamerone e studiarseli a casa. Un esempio illustre e precoce di come mettere in pratica quest’idea fu dato dall’Ariosto che condusse un sistematico lavoro di correzione sull’Orlando Furioso, liberandolo dalle inflessioni dialettali e riscrivendolo sul modello petrarchesco. Ma le resistenze furono molte in nome soprattutto di una lingua comune alle varie regioni italiane.

 
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