Guerra

Guerra e vita quotidiana
È indubbio che in età antica – come poi in molte fasi della storia moderna – la guerra fu concepita meno quale stato di eccezione o di emergenza che quale elemento della vita quotidiana o addirittura quale norma.

L’idea della guerra e delle sue necessità si collega sin da principio alla stessa nozione di cittadino della polis. È stato calcolato che nel pieno dell’età classica (fra le guerre persiane e l’avvento di Alessandro Magno, nel 336 a.C., dunque in meno di un secolo e mezzo) si sono combattuti oltre cinquanta conflitti armati, molti dei quali di notevole estensione; un cittadino di Atene aveva occasione di partecipare a una spedizione militare in media ogni due o tre anni. Per conseguenza, benché la pace sia stata spesso celebrata e agognata (particolarmente in alcuni periodi bui della guerra peloponnesiaca [431-404 a.C.], come testimonia la produzione di Aristofane), la grecità non ha mai prodotto nulla di simile a un movimento di idee pacifista o addirittura non-violento. Al contrario, la radicata presenza di concezioni derivanti in ultima analisi dall’aristocrazia arcaica, favorì semmai quella che alcuni storici, forse con qualche eccesso, definiscono una ‘cultura permanente’ della guerra e della violenza.

Non si deve però dimenticare – a scanso di semplificazioni idealistiche – che la guerra non fu solo o non fu tanto il portato di condizioni culturali, quanto un fenomeno derivante dalla stessa struttura socio-economica della polis antica (ivi compresa, pur fra molte differenze, Roma), per la quale una certa forma di ‘imperialismo’ (spesso difensivo) fu strettamente connesso alla base agricola e al fondamento schiavile di un’economia che la sua stessa debolezza rendeva precaria ed esposta a crisi di ogni tipo (comprese periodiche crisi demografiche). Da questo punto di vista, la guerra può essere interpretata come uno dei dati più costanti non solo della cultura, ma anche e soprattutto dell’economia antica.

Forme e tecniche della guerra
Molte delle guerre che opposero le poleis antiche furono conflitti di carattere locale, spesso assai limitati nel tempo e nello spazio. Altri – come la guerra che oppose Sparta e Atene, o come lo stato di conflitto pressoché permanente che oppose i Greci ai Barbari persiani – ebbero caratteri ben più estesi e impegnativi.

Gli studiosi hanno spesso rimarcato il rigore del protocollo che amministra le guerre antiche (e che, secondo alcuni, assume gli aspetti di un vero e proprio rito codificato e rispettato): dalla preventiva consultazione di un oracolo, alla dichiarazione di guerra tramite araldi, al reclutamento dei soldati, sino al conflitto vero e proprio (che per lungo tempo presso i Greci fu innanzitutto una battaglia campale, da tenersi secondo regole e procedure ben precise) e alle pratiche che seguono la battaglia e che un tacito accordo fra le parti coinvolte rendeva pressoché obbligate (il recupero dei cadaveri innanzitutto, quindi l’erezione di un trofeo o di altro monumento commemorativo).

Lo svolgimento della guerra fu a lungo legato alla formazione della falange oplitica, che a partire dal VII secolo a.C. sino alla fine del V fu una costante pressoché assoluta degli eserciti antichi: file ordinate e simmetriche di guerrieri (da 9 a 50), che congiungevano gli scudi in modo da formare una struttura compatta (i primi segni di tale pratica si scorgono nelle parenesi, o esortazioni al valore, poetiche di Tirteo) e che per lo più si giocavano le sorti dello scontro sin dal primo cozzo fra i due contingenti contrapposti; se la falange resisteva all’urto iniziale, poteva aver luogo un corpo a corpo che si concludeva comunque con il ripiegamento di uno dei due eserciti e che solo raramente vedeva un successivo inseguimento dei fuggitivi da parte degli avversari (anche quest’ultimo aspetto è stato messo in relazione con il carattere rituale della guerra antica).

È questo il tipo di confronto militare che prende il posto tanto del duello singolare (caratteristico della guerra narrata da Omero), quanto della battaglia fra cavalieri (che fu invece un tratto tipico e un vanto dell’aristocrazia). L’armamento degli opliti prevedeva, oltre allo scudo rotondo, convesso, largo circa un metro, detto hóplon, che dava il nome al soldato, un elmo per lo più di tipo corinzio (capace di coprire guance, collo e naso), una corazza in bronzo o in cuoio rinforzato, gli schinieri, la lancia (lunga in genere 2 o 3 metri) e la spada corta, che tuttavia appariva del tutto secondaria nello svolgimento della battaglia.

Si trattava di un armamento assai pesante, specie se si pensa che l’uso greco prevedeva che le guerre si svolgessero soprattutto durante l’estate: si capisce allora perché le battaglie campali si svolgessero nel mutuo rispetto di un protocollo abbastanza rigido e prevedibile (e perché avesse tanta importanza, nel training del cittadino medio, l’attività sportiva: non è un caso se un’antica specialità come la ‘corsa in armi’ non fu mai del tutto abbandonata in molte competizioni atletiche).

Nonostante la centralità della falange oplitica, gli eserciti greci continuarono comunque ad avvalersi dei cavalieri e di altri soldati (soprattutto gli arcieri e i frombolieri, che erano però sentiti come tipici dei Barbari: le rispettive modalità di combattimento si condannavano spesso in quanto sleali, poco ‘virili’ e poco onorevoli, perché condotte ‘a distanza’; di qui la fortuna ambigua di eroi arcieri come Eracle e Filottete). Sin dalla guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), poi, i Greci furono costretti a sperimentare forme di conflitto assai diverse dalla tradizionale battaglia campale fra opliti: l’assedio, l’agguato, il combattimento veloce, l’inseguimento; non a caso gli opliti vennero presto affiancati da combattenti alla leggera, i peltasti (il nome proviene dal piccolo scudo tondo detto ‘pelta’), che adottavano una tattica di aggiramenti, ritirate apparenti e ritorni alla carica. Il confronto con i Persiani (sin dalla battaglia di Maratona, 490 a.C.), che avevano nella cavalleria il nerbo del loro esercito, costrinse anche i Greci a dotare le ali della falange di una nutrita schiera di cavalieri: un accorgimento che poi divenne fondamentale per l’esercito di Alessandro Magno.

In linea generale, nel corso del V secolo a.C. la guerra oplitica viene progressivamente sostituita dalla guerra di movimento, aprendo peraltro il campo a una sempre più affinata elaborazione di schemi bellici che fece la fortuna di una figura sino ad allora limitata a un ruolo secondario, lo stratego (gr. strategós, «comandante dell’esercito»). La tattica divenne poco a poco un’autentica disciplina tecnica: e gli annali della guerra antichi, nell’ultimo ventennio del V secolo a.C. e poi via via nel corso del secolo successivo, danno sempre maggior importanza al ruolo dei comandanti e allo loro scelte strategiche.

La guerra navale
Ma la novità più importante del V secolo a.C. fu senza dubbio il ruolo ricoperto dalla flotta e dagli scontri navali. Regina indiscussa in quest’ambito fu Atene, anche se la sua sconfitta nel confronto con Sparta dimostra ciò che gli studiosi di cose belliche hanno sempre sottolineato: la guerra navale, in età antica, restò sostanzialmente un’appendice della guerra terrestre (anche per questo la figura dell’ammiraglio fu sempre secondaria rispetto a quello dello stratego), benché le fonti sottolineino il ruolo fondamentale giocato da alcune battaglie in mare (si pensi a Salamina, nel 480 a.C., o alle Arginuse o a Egospotami, rispettivamente nel 406 e nel 405 a.C.) e benché la flotta di Atene abbia rivestito a lungo una fondamentale funzione dissuasiva nei confronti dei nemici e degli stessi alleati inclini all’indisciplina.

Imponenti battaglie fra navi (sconosciute a Omero, per cui la flotta è soltanto un mezzo di trasporto) si registrano sin dall’arcaismo (la prima, secondo Tucidide, avvenne nel 681 a.C. fra Corcira e Corinto), ma ancora all’inizio del V secolo a.C. nessuno stato greco disponeva di una flotta davvero temibile (o comunque tale da tener testa alla flotta dei Persiani). La svolta venne appunto da Atene, e in particolare – secondo la tradizione – da Temistocle, ma ebbe un prerequisito tecnico fondamentale nella sostituzione dell’arcaica e poco maneggevole pentekóntoros (nave a 50 remi) con l’agile trireme: una nave a tre ordini di remi (che occupavano in genere circa 300 rematori), lunga fra i 35 e i 40 metri. Fu questa la nave per eccellenza tanto del commercio, quanto della guerra. E i conflitti navali furono i primi a promuovere lo sviluppo di un’accurata scienza tattica, che richiedeva equipaggi abili e non meno abili strateghi: manovre come lo sfondamento, l’aggiramento, la chiusura a circolo, vennero sviluppate nel corso del V secolo a.C. (la prima fu fondamentale, a quanto pare, per la vittoria di Salamina [480 a.C.]) e divennero un patrimonio duraturo della guerra navale antica.

Cittadini ed eserciti
Se per Omero il soldato è innanzitutto l’aristocratico (per quanto gli eroi omerici siano cospicuamente affiancati da scudieri e soldati semplici), per la polis il sodato è innanzitutto il cittadino. La principale forma di reclutamento coincideva con le suddivisioni amministrative della polis (ad Atene, ognuna delle dieci tribù era tenuta a garantire un certo numero di opliti). Ma questa coincidenza di cittadino e oplita – che pure fu fondamentale nella stessa evoluzione socio-politica della città antica – venne ben presto messa in crisi dalle esigenze belliche: già la guerra navale impose un ricorso pressoché costante a rematori che provenivano dalle file degli schiavi (che comunque furono sempre utilizzati in reparti non combattenti), e una città in perenne crisi demografica come Sparta fu costretta – non solo durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) – a reclutare, e quindi a regolarizzare come nuovi cittadini, numerosi uomini estranei all’originaria élite degli Spartiati. Fra V e IV secolo a.C., infine, si affermò l’uso del mercenariato, che favorì il costituirsi di un ceto militare professionistico, sempre più indispensabile allo svolgimento della guerra. Ma il tipo del cittadino-soldato, ancorché destinato al tramonto, ritornò dominante e pressoché esclusivo per buona parte della storia romana di età repubblicana.

[Federico Condello]