Abbasso la Crusca
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Abbasso la Crusca

La tendenza che accomuna gli intellettuali di maggior spicco è il rifiuto del fiorentino in nome di una lingua italiana. Una tendenza che fa spesso esplicito riferimento alla polemica antitoscana del De vulgari eloquentia, riportato in auge insieme a Dante agli albori del secolo soprattutto dal Vico e dal Gravina. Si cominciano anche a distinguere, come fanno il Manfredi e il Maffei, due registri della lingua, uno adatto all’uso corrente, l’altro alla poesia. Ancora il Maffei e il Muratori sono gli artefici di una rivalutazione dei dialetti considerati non più come idiomi corrotti, ma come manifestazioni naturali e popolari. La quarta edizione del Vocabolario della Crusca (1729-38) è l’occasione per il riaccendersi della polemica che vede ormai arroccati nella difesa della lingua di Firenze solo i fiorentini, in particolare il Salvini e il Manni, tagliati fuori dal corso della storia. Con la chiave del provincialismo, che caratterizza ormai la Toscana, si può leggere anche il tentativo, abortito, di contrapporre alla lingua di Firenze quella di Siena: un’idea non nuova, del resto, che aveva avuto nella prima metà del Cinquecento un sostenitore in Claudio Tolomei. I tempi però erano molto cambiati e il fatto che un professore della locale Università, Gerolamo Gigli, volesse contrapporre a quello della Crusca un ‘Vocabolario cateriniano’, che conteneva frasi e parole di Caterina da Siena, avrebbe potuto essere considerata solo l’innocua stranezza di un pedante. La cosa, invece, fu sentita come un affronto ed ebbe conseguenze gravi per l’autore che fu esiliato, mentre la sua opera, arrivata solo alla lettera r, fu data alle fiamme.

La critica alla Crusca tuttavia è piuttosto contenuta nella prima metà del secolo ed è condotta nell’ottica di una cultura nazionale, secondo la prospettiva moderatamente riformistica dell’Arcadia, l’accademia letteraria diffusa in tutta la penisola. Le cose cambiano intorno agli anni Sessanta, quando la filosofia illuministica, che mira a una rifondazione del sapere sulla base della natura e della ragione, prende piede, favorita dalla presenza a Milano e a Napoli di governi illuminati. Si innesta così una reazione violenta alle regole della Crusca, che coinvolge molti intellettuali. Il torinese Giuseppe Baretti, spirito vivace e bizzarro, timoroso delle influenze straniere, difende la chiarezza e la semplicità della lingua del Metastasio e, con scarsa coerenza, addita come modello di naturalezza la Vita del Cellini, ma accusa la Crusca di raccogliere le parole nei chiassi e nei lupanari di Firenze. Gli illuministi lombardi, al contrario, pensano che la lingua debba attingere, quando è necessario, ai forestierismi. Il «Caffè» (1764-66), la rivista fondata da Pietro Verri e redatta con la collaborazione del fratello Alessandro e di Cesare Beccaria, sostiene che la divulgazione delle nuove idee richiede una lingua facilmente comprensibile, concreta, anticlassica, lontana da ogni forma di purismo. Pertanto viene apprezzato Goldoni che usa una lingua media, fruibile in ogni parte d’Italia, e viene condannato invece il Parini per la scelta di un idioma nobilmente aulico. Il celebre articolo del «Caffè», in cui Alessandro Verri dichiara solennemente di rinunciare al Vocabolario della Crusca, diventa emblematico del distacco della cultura italiana più avanzata dalla ormai stantia istituzione fiorentina.

Del resto non molti anni dopo, nel 1783, il granduca Pietro Leopoldo, che in pochi anni imprime alla Toscana un impulso riformatore che la impone all’attenzione dell’Europa, abolisce di fatto l’Accademia della Crusca demandando le sue funzioni all’Accademia fiorentina. Nello stesso periodo la riflessione sulla lingua trova la sua espressione più approfondita nel Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana (1785-1800) di Melchiorre Cesarotti, che ha il pregio di attingere i concetti base al pensiero europeo più avanzato, liquidando in sostanza la sterile polemica contro il purismo fiorentino e avanzando anche concrete proposte operative. Cesarotti sosteneva infatti che la lingua, una realtà sociale fatta dai parlanti, mutava nel corso del tempo e quindi gli scrittori, liberi dal controllo pedante dei grammatici, potevano introdurre termini prendendoli dai dialetti e dalle lingue straniere.