Teognide
(gr. Theógnis, lat. Theognis)

Notizie biografiche
Sul conto di Teognide, originario di Megara, sono tanto dettagliate le ipotesi biografiche proposte dai moderni, quanto incerte e lacunose le testimonianze effettivamente fornite dalle fonti antiche. Incerta ne è la collocazione cronologica: alcuni studiosi si orientano, sulla scorta dell’enciclopedia bizantina Suda (X d.C.), verso il periodo 580-510 a.C., ma altri preferiscono una datazione decisamente più alta (a cavallo fra VII e VI secolo a.C.) o più bassa (ca. 550-480 a.C.), fondate essenzialmente sull’analisi di dati interni quanto mai controversi, specie in presenza di un diffuso problema di attribuzione che riguarda l’assoluta maggioranza delle elegie trasmesse sotto il nome di Teognide, e che rende perciò molto fragili le ipotesi fondate su presunti riferimenti alla tirannide di Teàgene a Megara (seconda metà del VII a.C.) o alle spedizioni persiane del 490 e 480 a.C. Un’ombra di dubbio permane addirittura sulla città di origine: già in antico Platone sosteneva che la Megara di Teognide non fosse la celebre città dell’Istmo, bensì l’omonima colonia di Sicilia (Megara Iblea); a lui si oppose il dotto alessandrino Dìdimo (I a.C.), mentre i moderni (al di là di qualche stravagante ipotesi, che ha collocato la Megara di Teognide in Macedonia) sono in generale persuasi dalla più naturale identificazione con la Megara di Grecia; l’autorevole testimonianza di Platone (che alcuni spiegano come un ‘falso’ intenzionale, dettato da esigenze di contesto: cfr. il caso analogo di Tirteo) è talvolta ‘salvata’ mediante l’ipotesi di una cittadinanza siciliana assunta da Teognide durante il suo presunto esilio. Quest’ultimo evento è spesso ipotizzato sulla base delle numerose elegie ‘teognidee’ che lamentano disagi e pene dell’esilio: ma poiché non si può determinare con sicurezza la paternità di esse, ogni illazione appare sconsigliata, ed è anzi ben possibile che tali testi riflettano un’esperienza ‘generazionale’ (quella dell’aristocrazia minacciata dai disordini popolari e dalle faide politiche della Megara arcaica) piuttosto che un vissuto individuale. Lo stesso deve dirsi della presunta povertà patita dal poeta (fondata anch’essa su brani di incerta attribuzione) e su molti altri dettagli ricavati da testi che nulla garantisce come genuini (per esempio le delusioni ricevute da amici e compagni di ‘partito’, i viaggi attraverso il Mediterraneo, il matrimonio fortunato con una donna non identificata, il disastro finanziario seguito a infelici esperimenti commerciali). Un elemento non meno controverso è il presunto amore di Teognide per un fanciullo di nome Cirno, destinatario dell’apostrofe che contraddistingue numerose elegie attribuite al Megarese: se molti studiosi (e già gli antichi) ne facevano volentieri il giovane amasio del poeta, più recentemente si è fatta strada l’ipotesi che Cirno (un nome non altrimenti documentato, se si esclude un ignoto figlio di Eracle) non sia altro che antonomasia per paîs, «fanciullo», e che come tale designi genericamente il destinatario ideale dei precetti impartiti dagli ideologi dell’aristocrazia megarese arcaica (non diversamente dal Perse di Esiodo, o da altri destinatari fittizi della poesia antica).

Opere

Sotto il nome di Teognide è giunta sino a noi, quasi tutta per tradizione diretta, una raccolta in metro elegiaco ammontante a 1389 versi e artificiosamente divisa in due libri (vv. 1-1230 il primo, i cui ultimi 5 distici sono di tradizione indiretta e quivi collocati dagli editori; vv. 1230-1389 il secondo libro, composto di carmi pederotici e probabilmente estrapolato da un anonimo ‘moralista’ che intendeva risparmiare a Teognide la nomea di omosessuale godereccio ed entusiasta); ad essa ci si riferisce convenzionalmente come alla Silloge Teognidea.

La formazione di tale raccolta, che godette di una fortuna notevole, comprovata dal numero dei testimoni diretti e delle citazioni indirette, costituisce da sempre uno dei più difficoltosi enigmi posti agli studiosi moderni. Rimangono incerti, infatti, sia la data, sia l’origine, sia il criterio di ordinamento di quella che è parsa talvolta l’unione arbitraria di due o tre antologie elegiache (di cui i vv. 1-254 conterrebbero l’autentico Teognide), talvolta il frutto di una collezione gnomologica [una raccolta di sentenze moraleggianti] nata non prima della tarda antichità, talvolta ancora – ed è l’ipotesi ad oggi più verosimile – una sorta di ‘antologia di antologie simposiali’, di età assai antica (almeno in alcuni dei suoi nuclei) e di straordinaria importanza documentale: nella Silloge avremmo cioè testimoniata, come mai in nessuna delle ‘antologie simposiali’ superstiti, la registrazione degli interventi poetici attuati, magari nel corso di diverse generazioni, da gruppi di aristocratici riuniti a simposio.

In tale occasione, la pratica del ‘botta e risposta’, fondata sulle capacità d’improvvisazione che costituivano un requisito fondamentale per il convitato, ha causato la formazione di ‘catene’ o ‘nastri’ simposiali, ossia di sequenze elegiache unificate da legami tematici (non sempre chiari a prima vista) e ricorrenze lessicali (talvolta vistose: si tratta di un ‘gioco’ verbale non diverso dal ‘rispondere per le rime’ delle tenzoni poetiche medievali e moderne); la registrazione di queste vere e proprie gare di abilità poetica deve aver costituito, secondo tale ipotesi, il fondamento di un processo di agglutinazione progressiva che nel corso degli anni, e forse con il contributo di un ‘redattore’, ha dato origine alla Silloge nella sua forma attuale.

È facile capire come in un simile contesto, fondato su enunciazioni anonime o su ‘riusi’ conviviali di testi noti (per esempio di Solone, di Mimnermo, di Tirteo, dei quali la raccolta comprende alcuni frammenti con varianti imputabili per lo più alla pratica dell’improvvisazione orale), risulti pressoché disperata la ricerca del ‘vero’ Teognide, che molti ritengono semplicemente l’ispiratore o il poeta eminente di una cerchia aristocratica che fornì il primo nucleo poetico alla futura Silloge, e che alcuni si sono spinti sino a ritenere una figura mitica, il semplice ‘nume tutelare’ di un gruppo di poeti che le stesse convenzioni del simposio condannano all’anonimato.

Ironia della sorte, Teognide è noto soprattutto per la cosiddetta ‘elegia del sigillo’ (vv. 19 ss. della Silloge), ovvero per il brano con il quale egli – secondo l’interpretazione prevalente, che però ha conosciuto diverse rettifiche e contestazioni – rivelerebbe all’amato Cirno di aver apposto ai suoi versi un «sigillo» (sphragís) capace di garantirne per sempre l’autenticità e di rendere vano l’operato di plagiari e falsari. Un’opinione assai in voga negli ultimi due secoli identifica tale ‘sigillo’ con il nome stesso di Cirno, che nel corso della Silloge ricorre ben 306 volte; altri hanno pensato al nome del poeta (registrato nella stessa elegia del sigillo), a tutta l’elegia proemiale, o addirittura a un concreto sigillo apposto sulla ‘prima copia’ del libro dedicato a Cirno, forse depositato in una sede templare (come il libro di Eraclito) o in altro luogo istituzionale.

Quasi tutte le ipotesi, però, si scontrano con la semplice constatazione che la poesia teognidea dovette conoscere soprattutto (se non solo) una diffusione orale. Studi recenti hanno evidenziato, insieme all’enorme influenza giocata dalle pratiche simposiali, il ruolo che Atene e i suoi circoli aristocratici devono aver avuto nella prima fase di formazione della raccolta. I temi in essa dibattuti sono quelli tradizionali per un’aristocrazia che, fra il pieno e il tardo arcaismo, comincia a veder minacciati i propri privilegi dalla nuova classe dei mercanti e degli artigiani: cioè di quelli che i versi teognidei definiscono invariabilmente i kakói/deilói (i «plebei», i «villani»), per opporli agli agathói/esthlói (i «nobili», i «bennati»), con una terminologia che è al contempo qualifica morale e socio-economica.

Accanto ai numerosi attacchi all’indirizzo della plebaglia extranobiliare e della sua ‘bruttura’ etica, la Silloge raccoglie i precetti dell’etica tradizionale aristocratica e dibatte i temi della lealtà e della slealtà amicale, della ricchezza e del suo rapporto con la virtù, del destino e della sua imprevedibilità, della giustizia umana e divina, oltre naturalmente ai temi caratteristici del simposio (il vino, l’amore, il canto e le rispettive leggi).

Non stupisce che tali testi, sopravvissuti al ceto aristocratico che ne ha costituito la matrice ideologica, siano diventati ben presto massime di buon senso e di dominio diffuso; e il nome di Teognide sia stato connesso a quello di altri maestri sapienziali arcaici (Esiodo, Solone, ecc.), favorendo senza dubbio l’attribuzione al poeta di ‘falsi’ (pseudoepigrafi), secondo una pratica che in certo senso minava già all’origine un corpus testuale che si pretendeva al riparo da ogni manomissione.

[Federico Condello]