Saggezza

Per la sensibilità contemporanea, la nozione di «saggezza» si connette spontaneamente all’idea di un’esperienza accumulata nel corso degli anni e concretizzata in un atteggiamento di prudenza, equilibrio, moderazione, profondità di giudizio. L’origine del termine è da ricercare nell’antico francese (e provenzale) sage, a sua volta derivato dal latino sàpere (attraverso un colloquiale *sapium) nel senso di «avere senno», «avere intelligenza» (da cui sapiens, mentre il nostro «sapiente» si connette piuttosto all’idea di «avere conoscenza»).

L’idea non è affatto estranea alla grecità: sin da Omero vecchiaia e saggezza appaiono associate (si pensi alla figura di Nestore) e tutta l’antichità greco-romana connetterà la facoltà deliberativa (e in genere l’idea dell’autorità sapienziale) alla nozione di un’esperienza acquisita con l’età (si parla talora di società ‘gerontocratica’, benché non manchino nozioni diverse: un proverbio derivante da un verso di Esiodo dice che «l’azione è dei giovani, la decisione è degli uomini maturi, la preghiera è dei vecchi»).

Ma lo spettro semantico che copre la nozione di «saggezza» appare in greco assai più ricco e per molti aspetti estraneo alle categorie moderne: infatti, da una parte è la «saggezza» intesa come equilibrio e prudenza (nozione espressa dalla famiglia di sóphron e sophrosúne, che corrisponde all’idea di «autocontrollo» e «rispetto delle regole», più che a quella di sapienza), dall’altra è la sophía (con il corrispondente aggettivo sophós), termine polisemico che non risulta riducibile a nessun traducente dell’italiano contemporaneo.

Come è stato più volte sottolineato, il sophós è in età arcaica non il «saggio» né il «sapiente», bensì colui che detiene e pratica un sapere di carattere altamente tecnico e spesso esoterico: in Omero, Iliade XV 412 sophíe (variante ionica di sophía) indica la competenza specialistica di un carpentiere, derivata direttamente dalla sfera divina (e in particolare da Atena, la patrona degli artigiani); nel corso dell’età arcaica e classica il termine continua ad applicarsi a ogni sorta di ‘specialista’ tecnico, spesso connotato in senso magico: e poco per volta sophós/sophía divengono i termini prediletti per indicare il «poeta» e l’insieme delle competenze artistiche espresse nella sua «poesia».

In questo modo i poeti tendono ad avvalorare la loro identità di ‘artigiani’ specializzati, detentori di un sapere esclusivo, non privo di tratti sovrumani: e non è un caso se sophía continua spesso ad essere applicato alla ‘magia’, mantenendo comunque un accento in qualche modo inquietante e virtualmente anomalo (perciò esso è applicato così frequentemente, per esempio, alla figura di Medea).

Ma già nel corso dell’età arcaica la connotazione ‘specialistica’ veicolata da sophía tende a slittare verso un significato più ampio, e sophós non è più soltanto l’artista o l’artigiano in quanto maestro di una téchne, ma anche il ‘maestro di saggezza’, il ‘maestro di verità’. Una nozione che secondo molti interpreti si può cogliere, in tutta la sua ambiguità, nel v. 19 della raccolta attribuita a Teognide (dov’è il participio sophizómenos, «esercitante la sophía», nel suo doppio aspetto di perizia artistica e di magistero morale) e che certo risulta sintetizzata nel leggendario ‘collegio’ degli Heptà Sophoí, i «Sette Sapienti», figure che godono alla stesso tempo di un’indiscussa autorità morale-sapienziale e di una marcata aura di superiorità magico-religiosa.

L’ambiguità del termine sophía rimane invariata per tutta l’età classica, pur vedendo progressivamente prevalere la nozione più recente di ‘sapienza’ su quella arcaica (e, in parte, ‘sinistra’) di ‘competenza esoterica’, strettamente connessa al campo di quell’intelligenza magica e per molti aspetti a-razionale o a-logica che i Greci chiamavano mêtis.

[Federico Condello]