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Il teatro dell’assurdo


Il teatro dell’assurdo mette in scena nel secodo dopoguerra l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la crisi, l’angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni comunicazione attraverso situazioni e dialoghi surreali, costituiti da squarci di quotidianità scomposti e rimontati in modo da creare un effetto comico e tragico al tempo stesso. L’azione e, a volte, anche il dialogo sono ridotti al minimo, le vicende sono apparentemente senza senso: in questo modo si scardina ogni convenzione e regola teatrale, si capovolge ogni criterio di verosimiglianza e di realtà.

La definizione «teatro dell’assurdo» è stata formulata dal critico Martin Esslin e accomuna autori che, pur svolgendo ciascuno autonomamente e senza influssi reciproci la propria ricerca, danno vita a un corpus di opere omogeneo. I maggiori esponenti sono Eugène Ionesco (La cantatrice calva, 1950; Il rinoceronte, 1959) e Samuel Beckett (Aspettando Godot, 1952; Finale di partita, 1957; Giorni felici, 1961). Strette sono le relazioni con l’esistenzialismo di Sartre, con le avanguardie surrealista (per il teatro, Jarry e il suo Père Ubu) e dadaista.

Ionesco
Beckett