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L’italiano in pericolo

Ma com’è questo italiano contemporaneo? Cominciamo dal rapporto con le altre lingue. Un fenomeno sintomatico è il netto arretramento del francese: non solo negli ultimi anni si è ridotto moltissimo l’insegnamento di questa lingua nelle scuole italiane, ma ormai, a differenza di quello che era successo soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, i francesismi non arrivano più. Ma anche dalle altre lingue attingiamo assai poco. Sporadicamente entra qualche nuova parola legata al tempo libero, come i termini giapponesi ikebana (1963), arte di disporre elementi vegetali, o aikido (1970), arte di difesa personale. L’inglese ormai domina sovrano. Non si contano i termini che mantengono la forma originaria, come public relations («pubbliche relazioni», 1963), escalation («aumento graduale e progressivo», 1965), top secret («notizia segreta»), background («complesso di circostanze che fanno da sfondo» a qualche evento, 1967). L’influsso si esplica anche nell’uso di abbreviazioni e sigle, come V.I.P. («persona molto importante», 1968), e di onomatopee come slam e gulp che entrano nell’italiano grazie ai fumetti.

Il motivo di questo dominio va ricercato nel ruolo di leader che giocano gli Stati Uniti nello sviluppo tecnologico, in particolare nell’informatica. La conseguenza è che tutta la terminologia che riguarda il computer, e che si aggiorna continuamente, è inglese. Certo, talvolta si usano i corrispondenti italiani come disco rigido invece di hard disk o dischetto invece di floppy disk, ma la maggior parte delle parole, a cominciare da file, non viene tradotta. Ormai non si tratta nemmeno più di singole voci, ma dell’intrusione della lingua inglese nel suo complesso. Il motivo principale sta nel fatto che l’inglese è la lingua più usata su Internet.

L’italiano sembra dunque in pericolo e se forse esagerano alcuni linguisti che parlano di una sua morte prossima, sta di fatto che almeno come lingua scientifica è già morto. Fisici e medici, se si rivolgono alla comunità internazionale, devono usare l’inglese; non resta più niente della tradizione di Galileo, Redi, Torricelli, Volta, ma anche di Fermi e Amaldi. Non solo: oggi tendono a servirsi dell’inglese anche studiosi di discipline umanistiche, magari di linguistica italiana. Questi sono del resto problemi che non riguardano solo noi. A fronte di una Francia che cerca di difendersi traducendo tutta la terminologia informatica, ci sono piccoli Paesi come la Finlandia, in cui l’uso dell’inglese è generalizzato, o come la pragmatica Olanda, che nell’insegnamento universitario spesso preferisce l’inglese alla lingua nazionale. E nell’industria e nell’economia lo impiega sempre di più anche la Germania, pur rimanendo il tedesco una grande lingua di cultura. In Italia la situazione è più delicata, perché ancora non si è consolidato quel cammino verso l’acquisizione di una lingua comune che sembrava così bene avviato trent’anni fa. Insomma, nel villaggio globale sembra che ci sia posto solo per l’omologazione, cioè per l’inglese, e l’italiano – ironia della sorte per una lingua che per secoli è stata solo letteraria – rischia di essere usato solo nella conversazione quotidiana. Diventerebbe così una specie di dialetto, perché senza la cultura e l’uso scritto, una lingua cessa di essere tale.