Giudizio/Giudiziario

Definizione
La circoscrizione dell’àmbito giudiziario nella Grecia antica dipende strettamente dal particolare ruolo che il diritto gioca in una società che mai, nell’arco della sua pur lunga evoluzione, si avvicinò al grado di formalizzazione giuridica che fu invece tipico della cultura romana.

Ancora in Omero e in Esiodo l’àmbito giudiziario appare difficilmente distinguibile dall’articolato dominio della regalità e delle sue prerogative: a esercitare la facoltà di giudizio sono i re stessi (i basileîs «divoratori di doni» della Beozia arcaica, l’Agamennone re e giudice di Iliade IX 97) o comunque un collegio di anziani, muniti del bastone araldico (cioè di un surrogato dello scettro), che nulla distingue da analoghi consessi politici con funzione deliberativa (cf. Iliade XVIII 503 ss.). I punti di riferimento dell’attività giudiziaria sono innanzitutto le thémistes (l’insieme delle norme consuetudinarie ritenute di origine divina e applicate innanzitutto all’interno del singolo génos) e la díke (corradicale del lat. dico e del gr. déiknumi, «indico», «mostro», si riferisce a un diritto orale, formulare, fondato sulla sentenza che il giudice emette in base a una situazione particolare); più tardi appariranno i nómoi, intesi come insieme di leggi scritte e non scritte adottate da una determinata comunità: e i Greci, venendo a contatto con popoli e tradizioni diverse, non tarderanno a osservarne e a registrarne il carattere variabile.

Questa combinazione di tradizionalismo e flessibilità costituisce un carattere costante del diritto greco: com’è stato osservato, il mito ellenico non conosce figure di ‘eroi giudici’ o di re famosi per la loro sapienza strettamente giudiziaria (sono un’eccezione, del resto marginale, figure come quelle dei cretesi Minosse e Radamanto, considerati giudici nell’Ade); e non è un caso se in Grecia, a differenza che a Roma, non si sia mai costituito un ceto professionale di ‘tecnici’ del diritto. Solo in età storica, quando il corpus legislativo delle singole poleis si era ormai formato, nacquero un po’ ovunque figure semileggendarie di nomoteti (Licurgo per Sparta, Dracone e Solone per Atene) cui veniva attribuita, per aumentarne il prestigio, ogni sorta di disposizione legale; ma ancora nell’Atene del tardo V secolo a.C. non risultava compiutamente rispettata una differenza fondamentale come quella fra nómoi (leggi di portata astratta e universale) e psephísmata (decreti su questioni particolari, votati dall’ekklesía).

Il funzionamento dei tribunali
Proprio lo stato alquanto fluido del diritto greco, unito al senso forte di ‘partecipazione’ inerente al concetto stesso di cittadinanza, fece sì che il funzionamento dei tribunali e l’esercizio del potere giudiziario venisse per lo più concepito come un affare pubblico. Non è raro che la funzione giudiziaria venisse delegata direttamente alle assemblee deliberative o a un magistrato, che solo in casi particolari poteva decidere se rinviare la decisione a un tribunale. Ad Atene la boulé, che cumulava funzioni di carattere amministrativo e giudiziario, si occupava dei delitti con flagranza, nonché – a quanto pare – di alcuni delitti in materia religiosa: ma essa poteva comunque raccogliere denunce di ogni tipo; in seno all’altra grande assemblea ateniese, l’ekklesía (l’assemblea popolare), si continuavano a giudicare cause di grande impatto politico.

Solo dopo il 461 a.C., ad Atene, fu attiva una giuria piuttosto estesa che giudicava sulla base del confronto oratorio fra le parti in causa e delle prove (anche testimoniali) da esse prodotte. La tradizione attribuiva l’istituzione del tribunale popolare (l’heliaía) addirittura a Solone: i suoi membri, gli eliasti, furono sempre in numero di 6000 (600 per tribù), ma essi potevano evidentemente costituirsi in collegi giudicanti di numero variabile (dai 200 ai 1500 membri, più un presidente), perché le nostri fonti citano giurie numericamente assai diverse. L’heliaía era suddivisa in 10 sezioni, a ognuna delle quali spettava la competenza su particolari tipologie di crimini. Gli eliasti potevano discutere ogni sorta di causa, tranne i delitti di sangue, che anche dopo la riforma di Efialte (461 a.C.) rimasero in parte competenza dall’Areopago (formato da ex arconti), in parte dei 51 giudici noti con il nome di «èfeti», che si occupavano di omicidi involontari o legittimi (per legittima difesa), ma anche di omicidi di schiavi o stranieri.

Per procedere a un’accusa formalizzata (graphé) si ricorreva al giuramento da parte dell’accusatore, probabilmente sufficiente per avviare la macchina giuridica. Un’udienza preliminare poteva essere affidata al magistrato competente per la tipologia del crimine o a un apposito collegio di giudici detto eisagogeîs (alla lettera, «introduttori»). Meccanismi di sorteggio all’ultimo minuto dovevano poi garantire la non corruttibilità dei giurati, che mai furono giudici professionisti o tecnici del sapere giuridico: al ruolo poteva ambire ogni cittadino a pieno titolo, purché avesse compiuto i 30 anni.

La commedia Vespe di Aristofane (422 a.C.) irride acremente la mania giudiziaria che possiede i cittadini della democratica Atene, entusiasti all’idea di esercitare la funzione di giudici popolari (per la quale era previsto un compenso quotidiano di 2 oboli, innalzato a 3 nel 425 a.C.). Per gran parte dell’età tardo-arcaica e classica restò viva, in Atene, quella pratica di giustizia per nulla ‘garantista’ (come diremmo oggi), e comunque affidata agli umori influenzabili del dêmos, che va sotto il nome di ostracismo (una peculiare forma di esilio temporaneo). Il funzionamento dei tribunali era reso ancor più precario dalla scarsa chiarezza procedurale che caratterizzò un po’ ovunque, stando alle nostre fonti, l’esercizio del potere giudiziario. Ciò spiega anche l’eccezionale fortuna comica e satirica di una bizzarra figura semiprofessionale che popola le fonti del V-IV secolo a.C.: il sicofante, una sorta di querelante per mestiere, che mirando al compenso garantito a chi denunciava un crimine con successo, faceva di questa attività la sua principale specializzazione.

Questo insieme di fattori dovette determinare frequentemente, da una parte, il facile ricorso al tribunale (e sicuramente all’ostracismo, che però sembra esaurirsi con il V secolo a.C.) come arma di lotta politica, dall’altra la tendenza a evitare il vero e proprio giudizio ricorrendo alle forme di composizione informale che il diritto consentiva: innanzitutto l’arbitrato fra le parti, affidato a un cittadino qualsiasi, purché superiore ai 59 anni e riconosciuto come arbitro da entrambi i contendenti. A ciò si aggiunga il fatto che solo i cittadini a pieno titolo potevano contare su un’autentica tutela da parte del potere giudiziario: le donne, per esempio, vi accedevano soltanto per interposta persona, facendosi rappresentare da un parente maschio. Inoltre, viva restò la pratica dei processi sommari (e spesso delle esecuzioni immediate) per molte fattispecie criminose, in particolare delitti contro la proprietà e delitti di violenza, qualora si desse la flagranza di reato.

Non troppo dissimile dovette essere la situazione al di fuori di Atene, e solo durante il maturo ellenismo il diritto greco – e con esso le procedure giudiziarie – venne sottoposto a un’opera di razionalizzazione facilitata dall’ampia diffusione della scrittura.

L’oratoria giudiziaria
Lo stato del diritto e il funzionamento dei tribunali promossero quella particolare branca dell’oratoria classica che va sotto il nome di logografia: la scrittura, da parte di professionisti della retorica e per conto delle parti coinvolte nel giudizio, di discorsi destinati ad essere pronunciati – talvolta simulando l’improvvisazione, o comunque con un sapiente adattamento allo ‘stile’ e alla personalità del pronunciante – dinanzi alla giuria dei tribunali popolari. Alla professione di logografi si diedero alcuni dei più celebri oratori attici: Antifonte, Lisia, Isocrate, Demostene, ma anche Iseo e Dinarco (che furono soltanto autori di orazioni giudiziarie), Eschine e Licurgo (cui si devono orazioni di carattere ‘misto’, giudiziario-politico).


[Federico Condello]