Scienza e coscienza della crisi climatica

di Stefania Franco

  • Obiettivo primario: 13 - Lotta al cambiamento climatico
  • Obiettivo secondario: 17 - Partnership per gli obiettivi
  • Materie: Scienze della terra, filosofia

Per la maggior parte della sua storia l’umanità ha subito i capricci del clima e l’idea che le attività umane potessero influenzare in qualche modo i fenomeni naturali a livello globale si è affermata non senza difficoltà, ma prima di quanto crediamo

 

Che l’antropocene abbia inizio

Il termine antropocene è diventato popolare a partire dagli anni Duemila, quando il climatologo Paul Crutzen, premio Nobel per i suoi studi sull’atmosfera e il buco dell’ozono, lo utilizzò per indicare l’era in cui l’attività umane sono diventate un fattore in grado di influenzare gli equilibri geologici. Crutzen indicava l’inizio dell’antropocene a partire dalla rivoluzione industriale, anche se i suoi effetti hanno iniziato a manifestarsi con maggiore evidenza intorno alla metà del XX secolo. Non tutti concordano con questa periodizzazione:

il paleclimatologo William Ruddiman, per esempio, ritiene che le premesse per l’antropocene siano state poste diecimila anni fa, con l’invenzione dell’agricoltura, quando gli esseri umani hanno cominciato a disboscare per coltivare la terra e bruciare legname. La tesi di Ruddiman è che i l’impatto antropogenico dell’era industriale è stato preceduto da una fase molto più lunga i cui effetti si sono accumulati nel tempo.

A prescindere da quando si voglia fare iniziare l’antropocene, le analisi condotte sulle bolle d’aria imprigionale nelle calotte di ghiaccio mostrano un sensibile aumento della concentrazione di alcuni gas climalteranti, tra cui il diossido di carbonio e il metano, a partire dalla metà del XIX secolo. Ma quando abbiamo cominciato a renderci conto di avere un problema? E quando abbiamo cominciato a fare qualcosa per affrontarlo?





Il cambiamento climatico entra nell’agenda

Nonostante di cambiamento climatico si parlasse già almeno dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, il problema entra ufficialmente nell’agenda dei governi a partire dalla prima Conferenza mondiale sull’ambiente, nota anche come Summit della Terra, che si è tenuta a Rio de Janeiro nel 1992. Con la firma della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Accordi di Rio) 154 capi di Stato si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra. 

Gli Accordi di Rio stabiliscono inoltre il principio delle responsabilità comuni ma differenziate in relazione al diverso contributo al degrado ambientale da parte degli Stati.

Nel 1995 si tiene a Berlino la prima Conferenza delle Parti (COP-1), che riunisce i leader dei Paesi del mondo con cadenza annuale per discutere dei cambiamenti climatici.

La COP-3 del 1997 porta alla firma del Protocollo di Kyoto, che raggiunge alcuni importanti risultati: oltre all’impegno a ridurre le emissioni del 7% rispetto al 1990 entro il 2012, si stabilisce il meccanismo del cosiddetto “mercato delle emissioni”, in base al quale un Paese può acquistare crediti per le proprie emissioni investendo denaro in tecnologie che promuovano la crescita sostenibile dei Paesi in via di sviluppo. 

Nel 2009 a Copenhagen si comincia a discutere del dopo Kyoto, ma le parti non riescono a raggiungere un accordo. Paesi come la Cina, l’India e il Brasile non sono disposti a ridurre le proprie emissioni in quanto il loro principale obiettivo resta quello di uscire dalla povertà.

Un’iniezione di speranza arriva nel 2015 con gli accordi di Parigi, che fissano come obiettivo il mantenimento del riscaldamento globale al di sotto dei 2 C° e stabiliscono dei contributi determinati su base nazionale: in pratica, ognuno dei 194 Paesi firmatari sceglie in maniera autonoma e volontaria quale obiettivi porsi e come raggiungerli. Inoltre, nonostante gli accordi di Parigi siano formalmente vincolanti, di fatto non sono previste sanzioni per i Paesi che non li rispettano.

 

 

Gli ostacoli all’azione

Sono passati quasi trent’anni da quando per la prima volta i governanti del mondo si sono riuniti a Rio per affrontare il problema del cambiamento climatico, eppure quanto fatto finora non è stato sufficiente: tra il 2008 e il 2018 le emissioni di diossido di carbonio sono aumentate del 12% e, stando così le cose, è improbabile che si riesca a contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 C°. 

Sappiamo quali sono le cause del riscaldamento globale, sappiamo che i suoi effetti saranno tali da modificare radicalmente le condizioni della vita sulla Terra per le generazioni future e già ne vediamo le conseguenze nel presente. Sappiamo anche che cosa dovremmo fare per contrastarlo eppure non siamo ancora riusciti a mettere in atto azioni concrete ed efficaci. Perché?

Nel saggio Il tramonto della ragione Dale Jamieson, docente di studi ambientali alla New York University, identifica alcune delle ragioni che finora hanno impedito di intraprendere azioni significative. Il libro è stato pubblicato nel 2014, cioè prima degli Accordi di Parigi del 2015, ma le sue tesi hanno finora resistito alla prova del tempo.

Un primo ostacolo è la mancanza di comprensione tra scienziati, decisori politici e pubblico: i primi lavorano e ragionano su scale temporali molto più lunghe rispetto ai tempi della politica. Inoltre, nelle democrazie, i governanti sono vincolati alla durata del loro mandato, che è troppo breve rispetto agli impegni di lungo periodo necessari per affrontare il problema del cambiamento climatico. Il percorso iniziato dal presidente americano Jimmy Carter, ad esempio, è stato interrotto con l’elezione di Ronald Reagan, che nel corso del suo doppio mandato si è mostrato molto più interessato ai problemi economici che a quelli ambientali.

Un altro ostacolo è di tipo cognitivo: il cambiamento climatico, infatti, è un fenomeno complesso, graduale e non lineare. “Noi – sostiene Jamieson – siamo evoluti in modo da rispondere a rapidi movimenti di oggetti di medie dimensioni, non al lento accumularsi nell’atmosfera di gas la cui presenza è impercettibile”. 

Esiste poi un ostacolo di tipo economico: le analisi del rapporto tra costi e benefici si basano spesso sul presupposto che le risorse naturali siano illimitate, ma non è così. Inoltre, i costi del cambiamento climatico non sono sostenuti interamente da chi li ha provocati, anzi, a pagarne maggiormente le conseguenze sono gli abitanti dei Paesi più poveri e le future generazioni. Questo sposta il fulcro del problema dal piano economico a quello morale.

Il problema del cambiamento climatico può essere descritto da un punto di vista etico in questi termini: alcune persone si appropriano di una quantità di risorse maggiori di quante gliene spettino, sottraendole ad altre persone che vivono in un altro luogo o che non sono ancora nate. Ogni volta che prendiamo un aereo o mangiamo un avocado dovremmo pensare che stiamo privando un abitante delle Maldive o un neonato del 2100 del diritto di vivere in un ambiente integro e di accedere ad alcune risorse. Questa idea può esserci chiara da un punto di vista razionale, ma difficilmente arriverà a toccare le corde dei nostri sentimenti morali. 

La valutazione della responsabilità diventa difficile quando chi provoca un danno e chi lo subisce non hanno una relazione diretta. Lo stesso concetto di colpa necessita un ripensamento. Quando mangiamo un avocado, per esempio, non lo facciamo con l’esplicita intenzione di fare un danno a qualcuno, eppure anche questa semplice azione ha delle conseguenze. Quasi tutto ciò che facciamo ha delle conseguenze sull’ambiente, perciò si pone poi il problema di stabilire quali azioni siano lecite e quali no: prendere l’aereo per andare in vacanza a Glasgow è più riprovevole che prenderlo per recarsi alla COP-26? 

Secondo Dale Jamieson il cambiamento climatico rappresenta “il più grande problema di azione collettiva del mondo”, che impone di rivedere la morale del senso comune per abbracciare una prospettiva non solo globale, ma anche proiettata verso un futuro nel quale noi non ci saremo più, ma del quale saremo comunque responsabili.


Bibliografia

Dale Jamieson, Il tramonto della ragione. L’uomo e la sfida del clima, Treccani, 2021

 
Ormai l’LCA si adotta per tutti i settori, anche all’ambito alimentare, farmaceutico, automobilistico: anche per i viaggi è possibile immaginare questo tipo di attività. Quello che si ottiene alla fine è un valore che tiene conto di tutte le variabili, come emissioni e utilizzo di risorse ambientali, tra cui l’acqua.
Può apparire come un sistema complesso e troppo sofisticato ma, nonostante un vecchio detto dica che “nessuna pianificazione, per quanto accurata, potrà sostituire una bella botta di fortuna”, è ora di iniziare a usare questo approccio sul serio. La fortuna, come dimostrano i dati, non ci ha assistito abbastanza nella lotta al riscaldamento globale.

 

Attività per la classe

Raccogli informazioni sulla COP-26 e scrivi un articolo di giornale sui temi trattati, gli obiettivi da raggiungere e i principali risultati ottenuti nelle trattative.

 

Scheda docente