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E. Ionesco: La cantatrice calva (1950)


La cantatrice calva di Eugène Ionesco, rappresentata a Parigi nel 1950, è il primo esempio di questo modo nuovo di intendere il teatro. La novità assoluta del testo fece sì che all’inizio l’opera fosse accolta con diffidenza; riproposta nel 1955, riscosse un enorme successo, tanto da restare in cartellone per quindici anni consecutivi.

In La cantatrice calva i discorsi assolutamente normali e quotidiani dei personaggi dimostrano tutta la loro insensatezza e denunciano l’assenza di una reale intenzione comunicativa, mettendo in evidenza l’alienazione della condizione umana.


Da un manuale per l’apprendimento dell’inglese al testo teatrale

L’idea della Cantatrice calva fu ispirata all’autore dalla necessità di imparare l’inglese, utilizzando un manuale di conversazione per principianti. Le espressioni di uso più comune, le frasi fatte che vi erano proposte attraverso i dialoghi tra personaggi fittizi e tipicamente inglesi, i coniugi Smith e i loro amici Martin, lo colpirono per la banalità dei contenuti (per esempio: «La settimana ha sette giorni») e il tono perentorio con cui venivano comunicati.

« A questo punto» racconta Ionesco con autoironia «ebbi un’illuminazione. Non si trattava più per me di perfezionare la conoscenza della lingua inglese […]. La mia ambizione era divenuta più grande: comunicare ai miei contemporanei la verità essenziale di cui il manuale di conversazione franco-inglese m’aveva reso cosciente. D’altronde i dialoghi degli Smith, dei Martin, degli Smith coi Martin erano di per sé teatro, in quanto il teatro è dialogo. Dovevo dunque scrivere un’opera teatrale».

Fin dalle prime battute del testo emergono le caratteristiche esemplari dei dialoghi didattici da manuale: i temi (il cibo, la casa, la salute, l’ora ecc.), le regole grammaticali, le espressioni idiomatiche, gli stereotipi... Il testo teatrale marca e accentua questi aspetti, creando un effetto insieme comico e straniante. Anche il titolo resta insensato: nacque dall’errore di un attore.


La dissoluzione della struttura teatrale

Nel teatro di Ionesco non c’è approfondimento psicologico dei personaggi. Quello che dicono i protagonisti (i coniugi Smith e i coniugi Martin) resta del tutto in superficie, le battute si accumulano una dietro l’altra per associazioni del tutto esterne o casuali. I loro battibecchi restano freddi e controllati, in quanto i personaggi non si scambiano informazioni utili o opinioni sentite, non hanno niente da dirsi.
Alla fine dal non-senso dei dialoghi emergono l’inconsistenza del linguaggio e il vuoto, l’inconsistenza della condizione umana.

Ancora Ionesco racconta:

« Scrivendo questa commedia (poiché tutto ciò si era trasformato in una specie di commedia o anti-commedia, cioè veramente la parodia di una commedia, una commedia nella commedia) ero sopraffatto da un vero malessere, da un senso di vertigine, di nausea. Ogni tanto ero costretto ad interrompermi e a domandarmi con insistenza quale spirito maligno mi costringesse a continuare a scrivere, andavo a distendermi sul canapè con il terrore di vederlo sprofondare nel nulla; ed io con lui».

Il teatro non è più essenzialmente mimesi di un’azione che richiede l’immedesimazione degli spettatori, prevale invece la dimensione del meta-teatro: lo spettatore è spinto a riflettere non solo sulla condizione dell’uomo, ma sul modo stesso di fare teatro.

Per Ionesco il teatro deve essere «antitematico, antideologico, antirealistico-socialista, antifilosofico, antipsicologico, antiborghese, […] un teatro libero, ossia liberato, ossia senza pregiudizi, strumento da esplorazione».

Teatro dell'assurdo
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